Chi sta decidendo il prezzo del petrolio?

Stando a quanto afferma un interessante e recente approfondimento condotto da Bloomberg, l’OPEC avrebbe sostanzialmente perso il controllo del mercato petrolifero, che tradizionalmente ha avuto nel corso dei decenni. A influenzare il prezzo del greggio sarebbero ora le azioni e le dichiarazioni di tre soli uomini – i presidenti Donald Trump e Vladimir Putin, e il principe ereditario Mohammed Bin Salman – che probabilmente determineranno il corso dei prezzi del petrolio nel 2019, e oltre ancora. Il problema? Che ognuno di loro vuole qualcosa di diverso.

Dunque, afferma il media americano, se è vero che l’OPEC lotta per trovare uno scopo comune, Stati Uniti, Russia e Arabia Saudita dominano l’offerta globale con dei percorsi diversi. Insieme producono più petrolio dei 15 membri dell’OPEC, e tutti e tre stanno pompando a tassi record il greggio. Non solo: ciascuno potrebbe aumentare ancora la produzione anche l’anno prossimo, sebbene non tutti possono scegliere di farlo con libertà.

Ora, non sfugge il fatto che siano state l’Arabia Saudita e la Russia a influenzare, a giugno, il gruppo OPEC affinchè allentasse i vincoli di produzione in vigore dall’inizio del 2017. Entrambi i Paesi hanno successivamente aumentato la produzione per registrare, o quasi, livelli record. La produzione statunitense è cresciuta inaspettatamente nello stesso periodo, mentre le aziende che pompano dal bacino permiano in Texas hanno superato le strozzature degli oleodotti per trasferire il petrolio sulla costa del Golfo.

Questi aumenti, unitamente a piccole revisioni al ribasso delle previsioni di crescita della domanda e alla decisione del presidente Trump di concedere deroghe alle sanzioni agli acquirenti di petrolio iraniano, hanno evidentemente impattato sul mercato. Le scorte di petrolio nei paesi sviluppati dell’OCSE, che erano in calo dall’inizio del 2017, stanno nuovamente aumentando e, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, supereranno probabilmente il loro livello medio quinquennale quando i dati di ottobre verranno diffusi ufficialmente.

La sovrabbondanza di offerta non è però chiaro quanta strada posa avere davanti a se. L’Arabia Saudita ha dichiarato che il mese prossimo taglierà le esportazioni di 500.000 barili al giorno e ha avvertito gli altri produttori della necessità di tagliare circa 1 milione di barili al giorno rispetto ai livelli di produzione di ottobre. Un invito che però ha ricevuto una risposta tiepida da parte Putin, e una sorta di rimprovero da Trump.

Tuttavia, è chiaro che Bin Salman abbia bisogno di entrate petrolifere per finanziare i suoi ambiziosi piani di trasformazione dell’Arabia Saudita, evitando al contempo qualsiasi tipo di disordine. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che il regno avrà bisogno di un prezzo del petrolio di 73,3 dollari al barile l’anno prossimo per bilanciare il suo bilancio fiscale, e considerato che attualmente il greggio Brent è scambiato circa 5 dollari al di sotto di tale valore, mentre le esportazioni dell’Arabia Saudita sono scambiate a prezzo scontato rispetto al benchmark del Mare del Nord, appare chiaro come prolungare i tagli alla produzione per un terzo anno sia l’unico modo per realizzare il prezzo di cui ha bisogno.

Dal canto suo, in Russia, il presidente Putin non sembra mostrare grande entusiasmo nel limitare nuovamente la produzione del suo Paese. Il bilancio di Mosca è molto meno dipendente dal prezzo del petrolio rispetto a quando la Russia ha accettato di unirsi agli sforzi dell’OPEC per riequilibrare il mercato petrolifero nel 2016, e le compagnie petrolifere del Paese vogliono sfruttare pienamente i campi estrattivi su cui hanno investito.

Putin potrebbe però decidere che il mantenimento di una migliore relazione politica con l’Arabia Saudita valga un piccolo sacrificio. Ma non è scontato che la Russia possa accettare di estendere i tagli alla produzione quando i produttori si riuniranno a Vienna, il mese prossimo, per il meeting previsto. Putin ha già ribadito, peraltro, che i prezzi del petrolio di circa 70 dollari al barile sono un livello soddisfacente.

Sicuramente più opposizione sarà mostrata dal presidente Trump, in un contesto molto delicato: l’inquilino della Casa Bianca intende preservare le proprie relazioni politiche con il regno, ma molti senatori americani vorrebbero inasprire le sanzioni contro l’Arabia Saudita in risposta alla guerra nello Yemen e all’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.

Non solo. Una minaccia ancora più importante potrebbe arrivare dall’area petrolifera del Texas. I produttori americani hanno aggiunto un volume equivalente all’intera produzione della Nigeria dell’OPEC negli ultimi 12 mesi, e la produzione potrebbe raggiungere i 12 milioni di barili al giorno entro aprile 2019, secondo quanto afferma il Dipartimento dell’Energia, sei mesi prima di quanto previsto appena un mese fa e 1,2 milioni di barili al giorno in più di quanto previsto a gennaio.

Insomma, i compiti per l’Arabia Saudita non sono facili. Il regno dovrà rischiare l’ira di Trump, sfidare l’indifferenza di Putin e contrastare una fiorente industria statunitense dello shale oil, se vuole sperare di riequilibrare il mercato del petrolio nel 2019…

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