Sebbene sottovalutato rispetto ad altre determinanti più ricorrenti, c’è un motivo di fondo piuttosto importante che sta contribuendo a supportare le quotazioni del petrolio, infondendo discreto ottimismo sul mantenimento dei prezzi del barile sopra quota 50-52 dollari.
Il riferimento è alle minacce formulate dal presidente turco Erdogan, che ha dichiarato di poter valutare di bloccare l’export petrolifero dal Kurdistan (una regione situata tra Turchia e Iraq), a causa del referendum per l’indipendenza.
Ricordiamo che secondo le ultime stime le riserve della regione sono stimate in circa 45 miliardi di barili e che il loro sfruttamento è legato all’oleodotto che trasporta circa 550.000 barili al giorno fino al porto di Ceyhun in Turchia e al valico di Habur, dove transitano una media di 1.700 Tir al giorno.
Non è chiaro quanto possano essere assunte in concretezza simile minacce, ma intanto Iraq e altre nazioni hanno ricevuto l’invito esplicito della Turchia a interrompere gli acquisti di greggio estratto dai curdi.
Ad ogni modo, almeno per il momento gli operatori non stanno segnalando interruzioni nei flussi nell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan, né nelle condutture che lo collegano ai pozzi dell’Iraq settentrionale. Attenzione però al prossimo futuro. Non è affatto escluso che la situazione possa cambiare e lo possa fare anche in maniera repentina, sebbene Ankara difficilmente rinuncerà senza un pizzico di sofferenza alle tariffe di transito nella pipeline e ai barili curdi, che in parte consuma direttamente.
Qualche giorno fa il quotidiano economico finanziario Il Sole 24 Ore rammentava che la probabilità che i turchi chiudano davvero le valvole è comunque intorno al 20%, per un’analisi condotta dalla società Verisk Maplecroft, operante nella consulenza specializzata nell’analisi dei rischi.
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