Il petrolio ha chiuso la scorsa settimana rialzando la testa dopo i momenti di difficoltà che aveva anticipatamente attraversato. Alla chiusura della scorsa settimana di negoziazioni il Wti quotava sopra quota 46 dollari, mentre nelle ore precedenti era arrivato a superare (al ribasso) quota 45 dollari, ai minimi dallo scorso novembre, mentre il Brent è sceso sui 47 dollari, per poi rimbalzare sui 49 dollari.
I movimenti del petrolio che stiamo osservando in questi giorni sono per lo più figli del già annunciato clima di attesa legato alla possibilità che i tagli OPEC possano essere prolungati ancora fino alla fine del 2017, e dunque per almeno un altro semestre, dando una mano di aiuto nel tentativo di riequilibrare il prezzo del greggio, pressato – lo scorso anno – da una produzione eccessiva.
I passi in avanti in tal senso sembrano essere piuttosto fiduciosi, e l’Arabia Saudita si è fatta sostanziale portavoce della necessità di rompere gli indugi e andare a favorire un allungamento degli accordi, nella speranza che possano essere rispettati da tutti i partecipanti, e che possano magari essere allargati anche ai Paesi non OPEC, Russia in primis.
Certo, a margine di questo non può che esserci il grande dilemma rappresentato dalla posizione statunitense. Gli USA, non appena si sono resi conto che il prezzo del greggio stava nuovamente tornando su livelli di appetibilità, hanno ripreso con vigore le loro attività di trivellazione, spingendo su livelli molto sostenuti le attività shale oil, e andando così a compensare i buoni sforzi compiuti in sede OPEC.
Di qui, il grande dubbio futuro: riuscirà l’OPEC ad approvare un nuovo allungamento dei tagli alla produzione? E, ulteriormente, riuscirà a farlo rispettare a tutti i suoi membri, conferendo nuova credibilità al Cartello? Riuscirà a estenderlo anche ad alcuni dei principali Paesi non OPEC? E tale mossa potrà assumere maggiore forza rispetto al peso dello shale oil americano?
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