Crisi supply chain: il porto di Los Angeles bloccato non è un problema per i grandi distributori, ed ecco perché

La crisi della supply chain, letteralmente ‘catena di rifornimento’, è destinata a protrarsi ancora per mesi, e probabilmente il meccanismo continuerà a restare inceppato anche per tutto il 2021, con la speranza che per il 2023 tutto torni a funzionare più o meno regolarmente.

Per allora molte, troppe cose, saranno notevolmente cambiate, e difficilmente gli equilibri peraltro estremamente precari, che vediamo oggi, resteranno invariati alla fine di questa fase.

Abbiamo visto come nei porti commerciali delle più grandi città di tutto il mondo le operazioni di carico e scarico stiano procedendo a rilento, e abbiamo visto approfonditamente quali sono esattamente le cause della crisi della supply chain.

Ma come stanno reagendo società e imprese a questo enorme blocco dei porti? Ci sono centinaia di navi porta container che restano per giorni in attesa di poter entrare in porto per completare le operazioni di scarico e poter imbarcare il nuovo carico per ripartire.

Il blocco del porto di Los Angeles

Ci sono quindi migliaia di container pieni di beni e prodotti che in una situazione normale non resterebbero parcheggiati per settimane ma arriverebbero a destinazione nel giro di pochi giorni. E tra tutti i porti che si trovano in questo momento letteralmente bloccati, uno di quelli più ingolfati è il porto di Los Angeles, dove ci sono centinaia di containers fermi da giorni e giorni in attesa di essere scaricati.

Dal porto di Los Angeles e da quello di Long Beach passa circa il 40 per cento di tutto il carico che attraversa gli Stati Uniti. Al largo di questi due porti della California ci sono migliaia di container su centinaia di navi che aspettano solo di poter entrare per le scaricare la merce e ricaricare per partire verso nuove destinazioni.

In questo periodo prima di poter scaricare queste navi si trovano a dover attendere fino ad una settimana, e nel frattempo i container vuoti si accumulano nei porti in attesa di essere riempiti con altri prodotti e quindi imbarcati su navi che faranno rotta verso l’Asia.

Agli elevati costi per la spedizione delle merci legati all’aumento dei prezzi per i container, si vanno ad aggiungere poi i costi maggiorati del trasporto via terra legati anche alla crisi energetica e relativa impennata del prezzo dei carburanti.

È infatti l’intera supply chain, dalla produzione fino al trasporto su strada o su rotaie, ad essere in crisi. Se prendiamo ad esempio il porto di Los Angeles, nel primo trimestre del 2021 ha movimentato circa 2,4 milioni di TEU (Twenty foot Equivalent Unit), con un incremento del 41,2% rispetto allo stesso periodo del 2020. Il primo trimestre 2021 è stato il miglior trimestre mai registrato come volume di transiti dal porto.

I porti della California però ora sono oberati, con continui arrivi di nuovi container cui non sono in grado di far fronte in maniera sufficientemente rapida. In questo modo si sta creando un enorme arretrato che difficilmente sarà possibile smaltire prima dell’arrivo delle festività natalizie, quando la situazione può solo peggiorare.

Per le operazioni di scarico bisogna poter contare sulla manodopera del porto, che si occupa di scaricare la nave, poi bisogna caricare i prodotti sui vari mezzi, su ruote o rotaie diretti ai vari magazzini di smistamento, dove poi i corrieri si occuperanno della parte finale della distribuzione. Tuttavia non dimentichiamo che c’è una forte carenza di personale soprattutto in quest’ultimo segmento.

Cosa sta facendo la Cina

In questa fase la Cina sta affrontando una grave carenza di energia. Non dimentichiamo che oltre il 50 per cento della produzione del colosso asiatico dipende da elettricità proveniente da centrali a carbone, materia prima che arriva principalmente dall’Australia.

Ed è qui che troviamo un primo ostacolo, in quanto attualmente la Cina ha dato il via ad una guerra commerciale proprio con l’Australia in quanto il governo di Canberra chiedeva un’indagine indipendente sull’origine del Sars-CoV-2, cosa questa tutt’altro che gradita a Pechino. In tutta risposta l’Australia ha tagliato i rifornimenti di carobone alla Cina.

La Cina si è vista costretta, vista la scarsità delle forniture di carbone dall’Australia, a dare la precedenza ai cittadini, destinando quindi il carbone disponibile alla produzione di energia elettrica per le abitazioni al fine di evitare che la popolazione finisca per patire il freddo e altri disagi.

A risentire della carenza di carbone e quindi di energia elettrica sono quindi le fabbriche al posto dei cittadini, il che ovviamente non può che rallentare drasticamente la produzione.

Il caso Walmart

Se per molte imprese la crisi della supply chain rappresenta un grosso ostacolo e rischia di penalizzare pesantemente la ripresa, per i grandi distributori la situazione si presenta in modo un po’ differente.

Da Walmart ad esempio fanno sapere che la quantità di prodotti che fluiscono attraverso la sua catena di approvigionamento in questo trimestre è persino superiore a quella dello stesso periodo dell’anno scorso. Le scorte di Walmart sono aumentate dell’11,5% in questo trimestre, in considerazione dell’arrivo del periodo delle festività.

I dati che arrivano da Walmart hanno evidenziato come in momenti di crisi come quella che interessa l’intera catena di approvvigionamento globale, le più grandi società multinazionali hanno la possibilità di aggirare le interruzioni nella supply chain che penalizzano invece i ‘pesci piccoli’.

Non solo Walmart infatti, ma anche altri importanti distributori Usa, come Home Depot Inc, e Target Corp, hanno potuto noleggiare proprie navi da carico per bypassare il problema della catena di distribuzione ingolfata e dei porti bloccati.

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