Arriva la tassa sulla plastica, ma potrebbe non funzionare, ecco perché

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La Plastic Tax che ha in mente l’attuale esecutivo potrebbe non funzionare, o quantomeno il parere di Confcommercio è nettamente critico in merito. La tassa che il governo giallo-rosso pensa di introdurre per indurre i cittadini ad operare scelte, in fatto di acquisti, nell’ottica di una economia sostenibile, comporterebbe la tassazione di 1 euro per chilo di imballaggi di plastica.

La misura, inserita all’interno della manovra economica, dovrebbe divenire effettiva a partire dal mese di giugno 2020, e rappresenterebbe una delle poche che in Europa mirano ad agire sulle abitudini dei consumatori.

Ma se da un lato la lotta alla plastica è comune a tutti i Paesi europei, nonché sentita da moltissimi cittadini italiani, anche stando ai dati emersi dalla recente indagine di Coldiretti/Ixé, dall’altro quando si tratta di introdurre nuove tasse il discorso tende a cambiare radicalmente, ed è facile che qualcuno storca il naso.

In questo caso infatti, la tassa che andrebbe a colpire gli imballaggi di plastica non piace affatto a Confindustria. “La misura non ha finalità ambientali, penalizza i prodotti e non i comportamenti e rappresenta unicamente un’imposizione diretta a recuperare risorse ponendo ingenti costi a carico di consumatori, lavoratori e imprese” spiegano da Confindustria.

Lo stesso ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, ha sottolineato la necessità di aprire un tavolo di lavoro al Ministero per lo Sviluppo Economico, per stabilire il modo migliore per sostenere la ‘transazione ecologica’ delle industrie della plastica, che sono le prime aziende ad essere colpite dall’entrata in vigore della cosiddetta plastic tax.

La Commissione Europea aveva già fatto qualcosa di simile, causando reazioni non molto diverse nei vari Paesi membri. L’idea dell’esecutivo comunitario è infatti quella di introdurre una tassazione specifica sugli imballaggi in plastica non riciclata per il periodo 2021/2027, che in parte contribuirebbe a colmare il buco lasciato dall’uscita del Regno Unito dall’Ue.

Tutti gli Stati membri dovrebbero, in questo caso, lasciare un contributo nel bilancio comune, lasciando ai singoli Paesi ampia libertà di manovra in merito alle modalità con cui recuperare gli importi dovuti. Ad opporsi è stata prima di tutto la Federazione europea dei trasformatori di materie plastiche (EuPC) che ha espresso profonde perplessità in merito alle conseguenze che questa tassa potrebbe avere sull’intera industria europea delle materie plastiche.

La posizione delle associazioni ambientaliste

Secondo Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente “la tassa sulla plastica è una misura giusta e va fatta, anche se sarebbe opportuno modularla“. Non solo, perché per Cianfani in realtà la tassa sarebbe meglio applicarla anche a tutti gli altri prodotti in plastica, e non solo agli imballaggi.

“Proprio gli imballaggi infatti rappresentano la parte più virtuosa nei nostri rifiuti, tanto da aver fatto raggiungere al nostro Paese gli obiettivi europei sul recupero” ha spiegato il presidente di Legambiente. E in merito alla possibilità di modulare la Plastic Tax, è bene fare una distinizione accurata che spinga i consumatori ad adottare pratiche virtuose.

La tassa va prevista per l’usa e getta o per la plastica non riciclabile, ma certamente non per i manufatti che provengono dalla plastica riutilizzata, e per quelli fatti di materiali compostabili” ha spiegato Ciafani, che ha aggiunto: “dobbiamo penalizzare ciò che non va a riciclo in tutti i settori, dall’automobilistica all’edilizia, solo così si incentiva ricerca e produzione verso nuove tecnologie e polimeri più riciclabili”.

A a quelli che osteggiano la misura, Legambiente risponde: “Confindustria parla di problemi occupazionali, così come fece nel 2011 quando entrò in vigore la norma sui sacchetti per l’asporto di merci e ancora all’inizio del 2018, criticando l’obbligo dei sacchetti biodegradabili per l’ortofrutta. Eppure non mi sembra che le aziende abbiano chiuso, hanno semplicemente riconvertito le loro produzioni”.

La posizione di Greenpeace è abbastanza in linea con quella di Legambiente, ma aggiungono un dettaglio. Secondo il responsabile dalla campagna Inquinamento per l’Italia, Giuseppe Ungherese, in ballo ci sarebbero comunque delle cifre molto basse, che in sostanza renderebbero la nuova tassa del tutto ininfluente o quantomeno inefficace.

“Se una bottiglia di plastica pesa 9 grammi” ragiona Ungherese “facendo un semplice calcolo ci rendiamo conto di quanto la tassazione rischia di rivelarsi inefficiente” e poi spiega: “lo scopo dovrebbe essere quello di tassare comportamenti nocivi per l’ambiente e non prettamente fiscale. Per fare questo, ovviamente, la tassa dovrebbe essere accompagnata da una serie di misure che ad oggi nel nostro Paese non sono ancora state adottate”.

La Plastic Tax e tasse analoghe negli altri Paesi

Regno Unito

In Gran Bretagna qualcosa è già stato messo in moto, ma prima del 2022 non sarà possibile toccare con mano alcun risultato. Una tassa simile alla Plastic Tax italiana dovrebbe essere applicata a tutti gli imballaggi in plastica monouso che non contengono almeno il 30% di componente riciclata, ed è proprio in base a questa proporzione che varia la tassa stessa.

Per quel che riguarda la plastica monouso, la misura adottata dal Regno Unito nel 2018 è stata la prima in Europa, ma come detto, la misura entrerà effettivamente in vigore nel 2022. L’obiettivo sarebbe quello di penalizzare le compagnie che immettono nel mercato imballaggi difficili da riciclare, in linea con la strategia del governo mirata alla riduzione della plastica a favore di un incremento del riciclaggio, per la quale nel Bilancio 2018 furono stanziati 20 milioni di sterline, pari a circa 25,5 milioni di dollari.

I costi stimati per i rivenditori e per i produttori dovrebbero oscillare tra i 500 milioni e il miliardo e mezzo di sterline l’anno, con costi in previsione più elevati per le aziende alimentari e delle bevande. Ma secondo un sondaggio condotto da Ingredient Communications, almeno metà dei consumatori in Gran Bretagna è favorevole alla plastic tax.

Finlandia

In Finlandia alcune soluzioni sono state studiate già dagli anni ’90, ben prima che venisse emanata la direttiva europea che risale al 1994. Il metodo che viene usato in Finlandia si basa sul registro degli imballaggi dal quale dipendono i consorzi di filiera.

La tassa in questo caso riguarda gli imballaggi di bevande non alcoliche, escluse quelle nei cartoni naturalmente, e impone ai produttori e agli importatori di merce imballata, il pagamento di una somma pari a 51 centesimi di euro al litro sui contenitori riutilizzabili se non aderiscono a un sistema di deposito cauzionale per il riutilizzo, e dello stesso importo per litro sui contenitori non riutilizzabili se non aderiscono a un sistema di deposito cauzionale per il riciclo o a un sistema EPR (responsabilità estesa del produttore) nel caso di contenitori non riutilizzabili.

Norvegia

In Norvegia c’è la cosiddetta basic tax, e funziona più o meno come quella finlandese. Si tratta di una tassa che viene applicata in sostanza sui cosiddetti imballaggi “a perdere” mentre non è prevista per quelli che si possono riutilizzare se inseriti nei vari circuiti.

Ricordiamo però che la Norvegia è il Paese in cui il 96% delle bottiglie di plastica viene riconsegnato ai negozi e riciclato tramite il sistema di DRS (Deposit Return Schemes) molto in uso anche nel resto della Scandinavia e in Germania.

I costi di raccolta e riciclo però devono essere coperti, e a pagarli sono anche produttori e importatori di merce imballata. A loro spetta il pagamento di una tassa ambientale sui contenitori riutilizzabili e non riutilizzabili di tutti i tipi di bevande, ma non solo, anche quello di una ‘basic tax’ in aggiunta, sui contenitori non riutilizzabili di tutti i tipi di bevande, eccezion fatta per latte e bevande a base di latte.

Danimarca

In Danimarca è stata studiata una tassa il cui importo varia in base ad alcuni dati. Si chiama tassa verde e riguarda tutti i materiali di imballaggio, ma aumenta o diminuisce a seconda dei risultati di studi Life Cycle Assessment, mirati a valutare l’impatto ambientale dei vari materiali potenzialmente inquinanti.

Il sistema DRS (Deposit Return Schemes) diffuso nei paesi scandinavi, che in parole povere si basa sul principio del ‘vuoto a rendere’ viene applicato solo per determinati tipi di imballaggio, come ad esempio la birra e le bibite analcoliche gassate.

In Danimarca vige un sistema rigido quanto efficiente per lo smaltimento dei rifiuti, perché tutto ciò che non si può compostare o riciclare, quindi si parla di oltre la metà dei rifiuti con l’eccezione di quelli speciali, non va a finire nelle discariche ma direttamente nei termovalorizzatori. Qui i rifiuti vengono bruciati per produrre energia che serve a scaldare il Paese.

Germania

Anche in Germania esiste un sistema basato sul deposito cauzionale, ma nessuna tassa sui rifiuti. Questo sistema prevede che per ogni bottiglia da un litro e mezzo sia prevista una cauzione di circa 20 centesimi di euro, che vengono poi restituiti una volta che il consumatore deposita la plastica utilizzata nell’apposito compattatore.

Dal 1 gennaio 2019 inoltre è entrata in vigore in Germania la nuova legge sugli imballaggi VerpackG (la precedente era denominata VerpackV) e ha introdotto alcune interessanti novità nell’ottica di una maggiore trasparenza, più controllo e responsabilità da parte del produttore.

Alcune delle modifiche introdotte riguardano le quote permesse per i diversi materiali, con un aumento delle percentuali minime che ogni sistema è tenuto a destinare al riciclo. Alle stesse regole si sono dovute adeguare anche le aziende straniere, tra cui quelle italiane naturalmente, che esportano prodotti sul mercato tedesco. Pena per il mancato adempimento degli obblighi il pagamento di sanzioni pecuniarie che possono raggiungere importi anche di diverse decine di migliaia di euro.

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