Coronavirus, le zone più colpite sono quelle più inquinate. Lo smog favorisce il contagio?

La comunità scientifica è divisa sulle cause che hanno portato alla diffusione del coronavirus. Una parte degli esperti ritiene che gli elevati livelli di inquinamento dellaria in alcune aree del globo possano aver accelerato la curva epidemiologica, ma non ci sono ancora evidenze scientifiche che ciò sia realmente accaduto.

Ora che il lockdown ha bloccato il Paese in quelle stesse aree la qualità dell’area non è mai stata così alta, mentre prima, e parliamo soprattutto della pianura padana, si trattava della zona più inquinata dell’intera Europa. Discorso simile per la città di Wuhan e per la regione dell’Hubei in Cina, il primo grande focolaio di Covid-19, da cui tutto ha avuto inizio.

La comunità scientifica sta cercando di far luce su quali possano essere i rapporti di causa ed effetto tra inquinamento atmosferico e diffusione del coronavirus, ma sono emerse sostanzialmente due posizioni contrapposte. C’è chi ipotizza un nesso scientifico tra inquinamento dell’aria e coronavirus e chi definisce questa una ipotesi “fantasiosa”.

Hanno indubbiamente influito sulla diffusione del virus gli scambi internazionali, ma anche il fatto che alcune regioni non fossero affatto preparate ad uno scenario simile, e per responsabilità che non andremo ad analizzare in questa sede, sono state prese in contropiede.

Non si può non tener conto poi del fattore densità abitativa, che ha giocato anch’esso un ruolo nella diffusione del virus, almeno questo è quanto afferma un recentissimo studio della Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC) che presto sarà pubblicato su Respiration.

Ma del possibile legame tra inquinamento atmosferico e diffusione del coronavirus ha parlato anche lo stesso presidente dell’Istituto Superiore della Sanità, Silvio Busaferro, che ritiene necessari ulteriori approfondimenti. “Ci sono una serie di evidenze che abbiamo da prima, come la correlazione tra polveri sottili e malattie respiratorie” ha affermato Busaferro.

Poi c’è l’Agenzia Europea dell’Ambiente, che nel rapporto 2019 sulla qualità dell’aria (dati 2016) ha stimato che in Italia sono circa 76.200 le morti premature ogni anno, per il 77% attribuibili a Pm 2.5, diossido di azoto e ozono.

Tuttavia non è facile stabilire quale ruolo abbia effettivamente giocato l’inquinamento atmosferico nella diffusione del contagio, come sottolineato da uno studio dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale di Ricerche.

Poi però osserviamo i dati, quelli relativi al numero dei contagi, e soprattutto al numero dei pazienti che hanno avuto bisogno di ricovero in reparto di terapia intensiva. Quest’ultimo dato in particolare ha subito un calo drastico e non ci si può che domandare se non dipenda anche in parte dal netto miglioramento della qualità dell’aria, pulitissima per via del blocco di ogni attività dovuto al lockdown imposto dal Governo.

La disamina non è facile, purtroppo, servirebbero anzitutto più dati, in particolare tutta una serie di informazioni che riguardano la diffusione del coronavirus in Italia e nel mondo, ma soprattutto serve il ‘vero’ tasso di mortalità.

Accertata la presenza del coronavirus nel particolato

La Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) ha condotto uno studio in collaborazione con le università di Trieste, Bari, Bologna e l’ateneo di Napoli Federico II, che ha permesso di appurare la presenza del coronavirus nel particolato atmosferico.

Un punto di partenza, si potrebbe dire, per mettere in campo delle misure preventive efficaci ad evitare la ricomparsa del virus nel prossimo futuro, prima che la situazione sfugga nuovamente di mano con l’esplosione di una seconda ondata di contagio che porterebbe ad adottare nuovamente misure di contenimento drastiche, letali per una economia fin troppo provata dalla prima ondata.

Tuttavia siamo ancora molto lontani dalla dimostrazione di una nuova via di contagio. Nella ricerca è stata rilevata “la presenza di geni specifici, utilizzati come marcatori molecolari del virus, in due analisi genetiche parallele” fa sapere Leonardo Setti, il coordinatore del gruppo di ricerca.

Le analisi che hanno prodotto questo risultato sono quelle fatte su 34 campioni di Pm10 in aria ambiente di siti industriali in provincia di Bergamo che sono stati raccolti dal 21 febbraio al 13 marzo.

Cosa dice l’analisi del Cnr ISAC

Il legame tra inquinamento dell’aria e diffusione del coronavirus è stato valutato anche dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, che ha pubblicato uno studio sull’argomento su Atmosphere.

Si prova quindi a dare risposte a svariate domande, a cominciare da quali possano essere gli effetti di un’esposizione pregressa all’inquinamento nell’ambito del contatto tra il Covid-19 e l’organismo in oggetto.

E ancora, le ricercatrici Daniela Contini e Francesca Costabile affrontano la questione del “meccanismo di trasporto per diffusione in aria senza contatto”.

Partendo dal primo dei due temi, lo studio evidenza come sia “plausibile che l’esposizione di lungo periodo all’inquinamento possa aumentare la vulnerabilità degli esposti al Covid-19 a contrarre, se contagiati, forme più importanti con prognosi gravi”.

Non è possibile però stabilire al momento quanto pesi effettivamente l’inquinamento rispetto agli altri fattori che concorrono a prospettare uno scenario clinico più o meno grave. Bisogna tener conto del fatto che gli effetti tossicologici del particolato atmosferico non sono sempre uguali, ma dipendono in maniera rilevante dalle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche.

I ricercatori del Cnr spiegano infatti che “non è immediato tradurre valori elevati di parametri convenzionalmente misurati (Pm2.5 e Pm10), senza ulteriori caratterizzazioni, in una spiegazione diretta dell’aumento della vulnerabilità al Covid-19 o delle differenze di mortalità osservate”.

Un quadro reso ancor più complesso da alcuni dati recenti che mostrano focolai in aree caratterizzate da livelli di inquinamento molto diversi. “I dati sui contagi sono viziati da rilevante incertezza” si legge nello studio

E per quel che concerne la trasmissione del virus in aria, l’ipotesi è ritenuta “plausibile anche se non è ancora stato determinato quanto incida rispetto ad altre forme di trasmissione quali il contatto diretto e il contatto indiretto tramite superfici contaminate”.

L’analisi di Harvard, uno studio che ha fatto molto discutere

In uno studio condotto dalla Harvard university T.H Chan School of Public Health che è stato diffuso pochi giorni fa in via preliminare, vale a dire senza la revisione normalmente prevista per le pubblicazioni scientifiche, i margini di incertezza apparivano meno ampi.

Si tratta di uno studio che ha fatto molto discutere, nel quale sono stati analizzati i livelli di Pm2.5 e i decessi da Covid-19 in circa 3.000 contee degli USA che corrispondono al 98% circa di tutta la popolazione degli Stati Uniti.

Ne è risultato un dato che sembra dare un indirizzo chiaro all’analisi. Le province nelle quali si è registrato mediamente un microgrammo in più di Pm2.5 per metro cubo di aria sono quelle in cui il tasso dei decessi per Covid-19 ha superato il 15%.

Questo è stato il primo studio negli USA ad evidenziare il nesso tra esposizione prolungata nel tempo alle Pm2.5 e le morti per coronavirus e per altre malattie comunque associate all’inquinamento dell’aria.

Secondo lo studio di Harvard, le particelle inquinanti agiscono indebolendo il sistema immunitario e causano infiammazione dei polmoni, favorendo così anche altre patologie, come cardiopatie, diabete, problemi respiratori e ipertensione, che sono quelle che peggiorano drasticamente lo stato clinico dei pazienti affetti da Covid-19 causandone spesso la morte.

Lo studio però ci dice qualcos’altro, arrivando a quantificare il ruolo giocato dall’inquinamento atmosferico. Secondo gli autori infatti, come riportato da IlFattoQuotidiano, “dove i valori di PM2.5 oscillano intorno agli 11 microgrammi per metro cubo, l’abbassamento del particolato medio di una singola unità negli ultimi 20 anni avrebbe portato a 248 morti in meno”.

Prima della pubblicazione dello studio dell’università di Harvard, la Società di Medicina Ambientale (Sima), in collaborazione con università di Bari e Bologna, aveva lavorato ad un’analisi delle circostanze in cui si è sviluppato il focolaio nel Nord Italia, ipotizzando che il numero di contagi in Lombardia e nell’area della Pianura padana fosse legato, almeno in parte, proprio all’inquinamento dell’aria.

Nasceva quindi, circa un mese prima, l’ipotesi che le polveri sottili siano in grado di ‘veicolare’ il virus. In quell’occasione i ricercatori hanno confrontato i dati sui contagi che arrivavano dalla Protezione Civile con quelli pubblicati sui siti delle Agenzie regionali per la protezione ambientale relativi a tutte le centraline attive in Italia, che registravano il superamento dei limiti fissati dalla legge di 50microg/m3 di concentrazione media giornaliera.

Ed è risultato che vi era una relazione tra il superamento delle concentrazioni di Pm10 tra il 10 e il 29 febbraio, e il numero di casi di coronavirus registrati fino al 3 marzo.

La reazione al risultato dello studio pubblicato dal Sima

La risposta è arrivata attraverso una nota informativa della Società italiana di aerosol (Ias), firmata da 70 ricercatori appartenenti a diversi enti ed istituzioni, nella quale si invitava alla cautela.

“Ad ora non è stato dimostrato alcun effetto di maggiore suscettibilità al contagio al Covid-19 dovuto all’esposizione alle polveri atmosferiche” dicono gli esperti dell’Ias, che quindi esortano a non giungere a conclusioni, pur ammettendo che “l’esposizione, più o meno prolungata, ad alte concentrazioni di polveri aumenta la suscettibilità a malattie respiratorie croniche e cardiovascolari e che questa condizione può peggiorare la situazione sanitaria dei contagiati”.

Luigi Lopalco, professore di Igiene presso l’università di Pisa, a capo per l’emergenza epidemiologica in Puglia, su Twitter ha scritto: “l’inquinamento fa male, ma il Covid-19 ho paura che c’entri poco. Non pensate che l’aria fresca possa fermare il contagio: il virus corre con le nostre gambe, non con i Pm10″.

Ma sul tema è intervenuto anche Luca Marchesi, direttore dell’Arpa Veneto, che ha aggiunto: “è possibile affermare con chiarezza che, al momento, non esistono studi approvati e condivisi dalla comunità scientifica in grado di dimostrare che la diffusione del Coronavirus sia causata dall’inquinamento da particolato atmosferico”.

L’inquinamento tra i fattori che hanno determinato diversa diffusione del Covid-19

In uno studio dell’Università di Catania si sostiene però che l’inquinamento atmosferico da Pm10 potrebbe essere uno dei fattori che hanno determinato una diversa diffusione del coronavirus.

Lo studio si basa su dati Istat, e considera l’inquinamento una delle cause, insieme a fattori come temperatura invernale, mobilità, densità e anzianità della popolazione, ma anche densità di strutture ospedaliere e abitativa.

Una tesi simile viene sostenuta anche da una ricerca condotta dalle Università di Siena e Aarhus (Danimarca) in collaborazione. Il loro lavoro, pubblicato sulla rivista Environmental Pollution ritiene “l’inquinamento un co-fattore che contribuisce ad aggravare la malattia”.

C’è poi una recente pubblicazione ad opera dei ricercatori delle Arpa di Emilia Romagna e Marche, dell’Università Politecnica delle Marche e dell’ateneo di Bologna secondo la quale lo smog non svolgerebbe il compito di “trasportare” il virus, ma ricoprirebbe quello di “amplificatore”, peggiorando quindi le condizioni di chi sviluppa la malattia.

I ricercatori però ammettono che al momento, con le conoscenze di cui disponiamo, le evidenze a sostegno dell’ipotesi di un possibile ruolo giocato dal particolato atmosferico nella diffusione del Covid-19 sono “decisamente limitate e frammentarie”.

Più verosimile invece, secondo gli stessi ricercatori, una “interazione molecolare” tra polveri sottili e Coronavirus, che avvalorerebbe l’ipotesi che il Pm possa aggravare il processo di infiammazione indotto dal virus.

Gli studi fin qui citati adottano tutta la prudenza del caso, e non approdano ad alcuna conclusione definitiva che sarebbe prematura, tuttavia il rapporto tra diffusione del Covid-19 e inquinamento atmosferico era già emerso in passato.

Una ricerca sulla correlazione tra indicatore di inquinamento dell’aria e mortalità da Sars in Cina tra il 2002 e il 2003 rilevò infatti che il tasso dei decessi nelle aree più inquinate del Paese era raddoppiato rispetto a quello delle zone in cui i livelli di inquinamento dell’aria erano più bassi.

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