Il presidente USA, Donald Trump, ha contatti frequenti, specie pandemia in corso, col numero uno del Cremlino, Vladimir Putin. I due si sono sentiti almeno quattro volte da quando è iniziata l’emergenza coronavirus, e per quel che riguarda il principe saudita Mohammed bin Salman, Trump si riferisce a lui come a un “amico”.
Eppure sono proprio la Russia e l’Arabia Saudita a trarre i più ampi benefici economici dall’attuale situazione del mercato del greggio, con il prezzo che negli USA è sceso ormai sotto gli zero dollari.
Il progetto di questi due Paesi sembra finalmente andare in porto, dopo anni ed anni di lavoro che fino ad ora non aveva portato i frutti sperati. L’industria dello scisto USA è avviata verso una lenta e sicura distruzione, e occorreranno molti anni perché possa essere ricostruita.
La domanda di greggio è crollata con la pandemia di coronavirus e le misure restrittive che ha portato i Governi dei vari Paesi a mettere in campo. Il calo è stato persino più drastico di quanto mai si sarebbe potuto immaginare, con quattro miliardi di persone, secondo le stime, vale a dire metà della popolazione mondiale, che si trova costretta a limitare i propri spostamenti.
I compratori di greggio insomma scarseggiano da un po’ a questa parte, cioè da quando il coronavirus ha chiuso dentro casa tutte le persone di cui sopra. Non si tratta solo dalla statunitense West Texas Intermediate (WTI), o l’Arab Light, o il Dubai degli EAU, o ancora il Bonny nigeriano, l’Urals russo e il britannico Brent del Mare del Nord, ma di tutti quanti, soffocati da una produzione che scende ma non abbastanza lentamente quanto la domanda.
Il WTI si trova così ad affrontare una sfida che però sembra decisamente più ostica rispetto a quella dei rivali, questo perché lo spazio di immagazzinamento del greggio negli USA si riduce più rapidamente di quanto avviene in molte altre zone del pianeta.
Nella giornata di ieri, il centro di Cushing in Oklahoma, punto di consegna per i future in scadenza del riferimento statunitense, si ritrovava con 60 milioni di barili immagazzinati stimati, mentre la capacità complessiva è di circa 90 milioni.
Un vero incubo quello dell’immagazzinamento, che per Cushing, che incamera qualcosa come 16 milioni di barili a settimana, potrebbe portare al tutto esaurito entro la metà del mese di maggio, o nella migliore delle ipotesi ad inizio giugno. Insomma ancora un mese di ‘autonomia’ o poco più.
Si possono però utilizzare altre modalità di immagazzinamento. Il WTI può usare oleodotti, vagoni ferroviari, e persino le riserve petrolifere strategiche del Governo, le quali stando a quanto lo stesso presidente USA assicura, possono contenere ancora 75 milioni di barili.
Però, anche se si considerano queste soluzioni aggiuntive, secondo una agenzia di consulenza di Oslo, la Rystad Energy, la capacità esistente degli Stati Uniti, arriverebbe al massimo a 150-200 milioni di barili, e cosa succederà quando Cushing si sarà riempito? Dovrebbe accadere massimo entro giugno, poi potrebbero trascorrere dalle 6 alle 8 settimane per eliminare anche le altre opzioni.
Il fatto è che la produzione di greggio negli USA scende più rapidamente che in altre parti del mondo, ma non abbastanza per stare al passo con il calo della domanda dovuto all’emergenza coronavirus nel mondo.
La produzione, fino alla settimana scorsa, aveva subito un calo di solo 800.000 barili al giorno, da un massimo record che si attestava intorno ai 12,3 milioni di barili al giorno. Scendono quindi inevitabilmente anche gli impianti di trivellazione attivi negli USA, con una riduzione del 35%, sebbene si tratti di un indicatore in ritardo, e sarà in rilievo solo tra un mese abbondante.
Il WTI è diventato quindi un bersaglio facile per Sauditi e Russi, che portano avanti i loro obiettivi per la conquista di maggiori fette di mercato a pandemia finita. Il sistema adottato è semplice: si finge di stare al gioco con Trump. si promette di tagliare la produzione ma senza mai agire in maniera determinante per non sconvolgere i mercati e i loro clienti.
L’Arabia Saudita sta anche mettendo in campo delle strategie più complesse rispetto a quelle di Mosca. Riad offre infatti generosi termini di credito alle raffinerie che hanno comprato greggio dalla statale Saudi Aramco, abbassando i prezzi per i clienti asiatici, e aumentandoli fingendo di accontentare Trump per quel che riguarda il greggio destinato agli USA.
In arrivo altro greggio per gli USA
In questo quadro intanto ci sono 20 petroliere saudite che stanno per fare porto negli USA, in Louisiana e in Texas, dove entro la fine del mese di maggio scaricheranno circa 40 milioni di barili di greggio. Questo almeno è quanto riportato dalle agenzie Vortexa Ltd e Kpler Inc, e riferito al Wall Street Journal.
Ma di greggio negli USA ce n’è già in abbondanza, eppure sembra che i carichi in arrivo abbiano già dei compratori predeterminati, dei quali però il Journal non sembra essere in grado di fare i nomi. Motiva, che è la principale raffineria USA, situata a Port Arthur in Texas, ha una capacità di raffinazione di 630 mila barili al giorno, ed è di proprietà saudita.
John Kilduff, socio fondatore dell’hedge fund energetico di New York Again Capital, ha affermato: “possiamo immaginarle come 20 testate dirette in America come in un romanzo di Tom Clancy“.E d’altra parte “è questo il livello di distruzione che potrebbero rappresentare per i trivellatori di scisto su un mercato petrolifero USA già in esubero”.
E sempre Kilduff spiega: “dopodiché i Sauditi dovrebbero proseguire con i forti sconti ai compratori asiatici e con il credito a 90 giorni per le altre raffinerie, estendendo la loro politica di fare terra bruciata” insomma il riferimento è alla strategie di guerra che impone di distruggere tutto ciò che può tornare utile al nemico prima di abbandonare determinate posizioni.
E a nulla sembra possa valere l’accordo GLOPEC sul taglio della produzione stretto dal cartello guidato dai Sauditi e da un’alleanza di produttori mondiali, tra i quali compaiono appunto la Russia e gli USA.
Della mediazione nell’ambito del patto per il salvataggio del prezzo del greggio USA si è occupato anche lo stesso Donald Trump, quando era scambiato sotto i 20 dollari. Ha chiamato il principe Mohammed, descritto come suo amico, e poi il presidente Putin. Con quest’ultimo Trump si è sentito quattro volte nel solo mese di aprile, proprio per parlare degli sforzi dei due Paesi contro la diffusione del coronavirus.
Nel frattempo, in quattro anni Riad e Mosca hanno stretto tra loro ben tre accordi sulla produzione, finché il mancato accordo di marzo non ha innescato la guerra dei prezzi che insieme all’emergenza Covid-19 che ha fatto precipitare la domanda su base mondiale, ha portato al crollo senza precedenti del prezzo del petrolio.
L’obiettivo del GLOPEC
L’accordo siglato, il GLOPEC, si pone ora l’obiettivo di rimuovere dal mercato globale circa 9,7 milioni di barili al giorno, solo che si tratta di un target del tutto inadeguato alla situazione attuale, in cui il calo della domanda si stima intorno ai 20-30 milioni di barili al giorno, anche per i prossimi mesi.
Non si tratta solo della perdita dei consumi, ma anche della prospettiva di una recessione USA, se non su scala globale, il che non è affatto da escludere, che dovrebbe raggiungerci entro il secondo semestre 2020, d’altra parte negli USA si parla di decine di milioni di posti di lavoro persi.
Mosca, mantenendo nascosti i piani russi sulla produzione, ha mostrato un maggior rispetto dello spirito dell’accordo del GLOPEC. Il vice presidente del Consiglio di sicurezza del Cremlino, Dimitry Medvedev, ieri ha dichiarato che Mosca è disposta a vendere greggio con la formula “take or pay”, attraverso la quale si intende proteggere la sua partecipazione sul mercato del greggio.
E torniamo quindi alle 20 petroliere che stanno trasportando greggio saudita negli USA; che potrebbero essere state ordinate prima dell’accordo GLOPEC del 20 aprile, e che pertanto difficilmente potranno essere rispedite al mittente.
Il senatore del partito Repubblicano del presidente USA, Kevin Cramer, ha cercato di fare pressioni su Trump nelle ultime settimane, provando a far imporre dazi su tutto il greggio in arrivo, compreso quello che viene da Arabia Saudita e Russia, al fine di proteggere l’industria dello scisto americana. Per ora però il tycoon non si è sbilanciato, e ha solo fatto sapere che sta “valutando” la proposta dei dazi.
Cosa aspetta ora l’industria del greggio USA
Vista la situazione però, anche la proposta dei dazi potrebbe rivelarsi inadeguata, e non essere sufficiente per salvare l’industria del greggio statunitense.
“Ipoteticamente, eventuali dazi sulle importazioni di greggio potrebbero far allontanare le petroliere saudite dagli USA, ma il greggio resterà lì, nei serbatoi galleggianti in acque internazionali, e non sarà d’aiuto al quadro generale del greggio” dice Tariq Zahir, direttore di Tyche Capital Advisors a New York.
E poi prospetta che “Cushing si riempirà decisamente prima di maggio. I produttori statunitensi potrebbero cominciare a finire i posti dove immagazzinare il loro greggio per allora e molti potrebbero fermare la produzione e fallire” dice ancora Zahir.
“Fondamentalmente, tutto quello che Sauditi e Russi hanno fatto nelle ultime settimane è stato fare scenate di fronte a Trump. Se la domanda si riprenderà diciamo a dicembre, o persino a gennaio, Sauditi e Russi riusciranno ad ottenere una straordinaria partecipazione di mercato vendendo tutto il greggio che hanno in magazzino ed inondando tutto”.
E il quadro che viene delineato è senza precedenti, con un mercato dello scisto che si avvia ad una ripresa, ma che non tornerà mai più quello di prima, risultando decisamente più debole.
“Ci saranno delle bancarotte” preannuncia Zahir “ci saranno danni permanenti per il fracking, nonché per le trivellazioni offshore e per quelle in mare aperto. Poiché ci sarà così tanto esubero da sistemare, ci vorrà un anno o più. Ci saranno di nuovo operatori più deboli, e quelli più grossi, come Exxon e Chevron, saranno preoccupati che i loro bilanci vengano danneggiati da un periodo prolungato di greggio a 20 dollari circa”.
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