I tre scenari possibili della pandemia di coronavirus in Italia previsti a febbraio. Ecco quali erano secondo il governo

Si tratta di un documento di 40 pagine del quale il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha continuato a negare l’esistenza fino ad un paio di giorni addietro. Il documento contiene grafici e tabelle riguardanti i rischi per l’Italia nell’ambito della diffusione del coronavirus, il tutto datato febbraio 2020, quindi pochi giorni prima dell’esplodere della fase acuta dell’emergenza in Italia.

“Piano Sanitario nazionale per la risposta a un’eventuale pandemia da Covid-19” è il titolo del documento che il ministro Speranza aveva derubricato a semplice “studio in itinere” contenente valutazioni da egli definite “ipotetiche, aleatorie”.

La data in cui è stato redatto il documento è quella del 19 febbraio 2020, con stesura finale del 22 febbraio 2020, vale a dire a poco più di due settimane dall’imposizione del lockdown nazionale voluto dal governo Conte contro le direttive del Comitato Tecnico Scientifico.

L’obiettivo del piano non è certo un mistero. È stato infatti espressamente dichiarato che la sua funzione era quella di “garantire un’adeguata gestione dell’infezione in ambito territoriale e ospedaliero senza compromettere la continuità assistenziale, razionalizzando l’accesso alle cure, per garantire l’uso ottimale delle risorse”.

“L’erogazione di cure appropriate ridurrà la morbilità e la mortalità attenuando gli effetti della pandemia” si leggeva ancora nel documento che era stato secretato dal Governo.

Nel documento venivano fissate le priorità quali avere scorte adeguate di mascherine, tute e guanti, e soprattutto lanciava l’allarme sulla necessità di un maggior numero di posti in terapia intensiva. E come sottolineato da Il Corriere della Sera, queste dotazioni “nelle prime settimane non sono state sufficienti, né per il personale sanitario né per i malati”.

Quali erano i tre scenari descritti nel piano secretato del Governo?

Fu il Corriere della Sera a rivelare l’esistenza del Piano pandemico nazionale l’11 aprile 2020, a un mese dall’inizio della fase acuta dell’emergenza coronavirus in Italia.

Le reazioni all’intervista fatta al direttore generale per la Programmazione sanitaria del ministero della Salute furono molto accese e infiammarono il dibattito politico di quei giorni. Andrea Urbani, spiegava che il piano era stato tenuto segreto “per non spaventare la popolazione” con proiezioni e numeri troppo drammatici.

Si delineavano tre possibili scenari, dal meno preoccupante fino al più rischioso, attraverso l’elaborazione dei dati che arrivavano in quei giorni dalla Cina. Si partiva dalle cifre riguardanti la riproduzione del virus ed in base all’indice di contagio R0 si simulavano i possibili sviluppi del contagio in Italia.

Si parte dal “livello di rischio 1, sostenuta ma sporadica trasmissione e diffusione locale dell’infezione” che viene indicato quasi come caso scuola, mentre l’attenzione degli addetti ai lavori si concentrerà invece sugli altri due scenari, vale a dire quelli più preoccupanti.

Abbiamo quindi “il livello di rischio 2: diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie preordinate” e infine il “livello di rischio 3: diffusa e sostenuta trasmissione locale con aumentata pressione sul Ssn che risponde attivando misure straordinarie che coinvolgono anche enti e strutture non sanitarie”.

Ed è in questi due scenari, rispettivamente con indice di contagio R0 (erre con zero) pari a 1,15 e 1,25 che nelle proiezioni mostrano il più ampio gap di posti in terapia intensiva.

Nel documento secretato dal Governo troviamo subito alcuni messaggi chiave come quello che leggiamo in apertura nel quale si evidenzia che la Cina ha dimostrato “l’elevato potenziale epidemico” del virus Sars-CoV-2. Sulla veridicità di questa affermazione si stabilisce che “le misure di contenimento tempestive e radicali sono efficaci nel ridurre l’R0 sotto il livello di soglia e nel tenere sotto controllo l’epidemia”.

Si evidenzia anche che “dalla conferma del primo caso di trasmissione locale diventa fondamentale attivare tempestivamente misure di contenimento”.

I dispositivi di protezione da usare, la questione guanti e mascherine

Si faceva notare, all’interno del documento redatto dagli esperti, che “le procedure applicate nelle strutture intensive sono ad alta invasività” ed è per questo motivo che si prevedeva di “dotare queste unità operative di scorte adeguate di tute ‘coverall’, maschere, shields, cappe, guanti e altri presidi nelle diverse misure e taglie”.

“Le scorte devono essere adeguate al volume atteso di pazienti secondo il livello di attività previsto dall’organizzazione” si legge ancora nel documento.

Il problema dei posti letto in terapia intensiva

Il nodo più critico è sempre stato quello del numero di posti disponibili nei reparti di terapia intensiva nei quali i pazienti più gravi necessitavano di essere ricoverati. Un problema che oggi a fronte di un aumento dei posti disponibili (quasi raddoppiati rispetto a marzo 2020), di apprezzabili progressi in fatto di trattamento della malattia, e grazie ad una drastica riduzione dell’aggressività del virus, non si pone affatto.

A febbraio 2020 però la situazione era completamente diversa, e gli esperti sottolineavano nel documento che “dall’analisi dell’offerta assistenziale-ospedaliera riferita alla terapia intensiva, è emersa una dotazione complessiva nazionale di posti letto pari a 5324 (di cui 687 in isolamento semplice e a pressione negativa) con un tasso di occupazione dell’85%”.

“Ipotizzando di poter fruire del 15% dei posti letto disponibili con una riduzione dell’attività di chirurgia elettiva del 50% (come previsto negli scenari 2 e 3) si potrebbero liberare progressivamente fino a 1597 posti letto in TI di cui 103 in isolamento” si legge ancora nel documento.

Il coordinamento con le Regioni

Quello del coordinamento con le regioni era chiaramente il punto più politico toccato nel documento. Gli esperti cercavano di imprimere una linea comune che sincronizzasse le decisioni delle Regioni con quelle del governo centrale, cosa che per ovvie ragioni e per fortuna, non sempre è avvenuta.

D’altra parte lo scenario italiano si è presentato fin dal principio e fino alla fine della fase acuta dell’emergenza, in modo estremamente variegato, con situazioni completamente diverse tra una regione e l’altra, in particolare tra quelle del Sud e quelle del Nord. Da cui l’esigenza, indicata dal Cts ma ignorata dal governo centrale, di adottare misure diversificate.

Nel documento leggiamo dell’attivazione di “un Coordinamento nazionale che opera secondo un modello decisionale centrale ben definito e un mandato forte e direttivo che, nel rispetto delle singole organizzazioni regionali, definisca l’efficienza degli interventi da attuare ma soprattutto l’efficacia delle azioni pianificate”.

Troviamo poi l’invito ad attenersi alla linea del governo centrale: “in stato di emergenza nazionale, le Regioni e le Province autonome devono superare le regole, i principi e le attuali differenze programmatiche che derivano dall’adozione di modelli organizzativi fortemente differenti soprattutto per le attività di emergenza”.

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