Variante Delta: diffusione in Europa, sintomi e ruolo dei vaccini

La variante Delta è stata isolata per la prima volta in India verso la fine del 2020 e si ritiene che a favorire la sua diffusione siano stati i raduni di folla oceanici e lo scarso utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, portando così all’aumento improvviso dei casi durante la seconda ondata che ha colpito il Paese.

La stessa Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha affermato che con molte probabilità la variante Delta diventerà, a breve, quella maggiorente diffusa in tutta Europa dato che molti Paesi stanno allentando le restrizioni e che ora sono nuovamente possibili i viaggi al di fuori dei confini nazionali.

Quanto è diffusa in Europa la variante Delta?

Ad oggi, nel Regno Unito la variante Delta risulta prevalente e rappresenta circa il 90% dei nuovi casi. Negli Stati Uniti, invece, la diffusione sta cominciando in queste settimane, infatti la percentuale dei casi si aggira attorno al 10%. Secondo la banca dati Gisaid, la variante indiana è abbastanza diffusa anche in Europa, anche se in maniera diversa nei vari Paesi:

  • 1,3% in Francia;
  • 2% in Polonia;
  • 4% in Germania;
  • 4,3% in Norvegia;
  • 5% in Belgio;
  • 10% in Spagna;
  • addirittura l’80% in Portogallo.

Inoltre, sempre secondo Gisaid, l’Italia presenta una diffusione pari al 7,7%, ma i dati non sono molto attendibili poiché non tutti i laboratori che effettuano il sequenziamento dei tamponi inseriscono poi in tempo reale i dati all’interno della banca dati internazionale. Per questo motivo, per avere un quadro più dettagliato della situazione italiana è necessario attendere l’elaborazione dei dati da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, che nel bollettino più recente ha affermato che la diffusione è inferiore all’1%.

Un’analisi del Financial times, basata sulle sequenze isolate e depositate nella banca dati Gisaid, unite ad altri dati raccolti dall’istituto belga Sciensano, stima invece che la diffusione della variante indiana in Italia si aggira attorno al 26%. Altre stime confermano che la variante è dominante nel Regno Unito e e in Portogallo, con una percentuale rispettivamento del 98 e 96%. A seguire, poi, troviamo gli Stati Uniti (con un 31%), l’Italia (con 26%), il Belgio (con 16%), la Germania (con 15%) e infine la Francia (con 6,9%).

La variante Delta è più trasmissibile?

Nel Regno Unito, dove i primi casi di positività sono stati registrati a febbraio 2021, la variante Delta ha superato in pochissimo tempo la variante Alfa, ossia l’ex-inglese che era stata isolata per la prima volta nel Kent (in Inghilterra), e, secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica “Science“, risulta essere dal 43 al 90% più trasmissibile rispetto al ceppo originario isolato a Wuhan.

Infatti, lo stesso governo britannico ha affermato che la variante indiana sembra essere dal 40 al 60% più trasmissibile rispetto alla variante Alfa. Gli esperti non sono ancora riusciti a capire quale sia il fattore che rende la variante indiana più trasmissibile, ma il tutto sembra essere dovuto a dei piccoli cambiamenti sulla proteina Spike, che sembrano aumentare la capacità del virus di legarsi al recettore ACE2 e di entrare quindi all’interno delle cellule.

Un altro concetto che resta da chiarire è quante particelle di Sars-CoV-2 debbano essere inalate per risultare infetti, ma una cosa certa è che questa soglia potrebbe essere molto più bassa se si ha a che fare con un virus “più bravo” a legarsi al recettore ACE2. Inoltre uno studio in attesa di revisione ha evidenziato che una particolare mutazione potrebbe migliorare la capacità del ceppo Delta di fondersi con le cellule dell’organismo e quindi aumenterebbe anche la capacità di infettare le cellule.

Quali sono i sintomi?

Anche i sintomi dovuti alla variante Delta sono leggermente differenti. Dai dati raccolti nel Regno Unito attraverso lo studio Zoe Covid Symptoms, durante il quale i partecipanti con positività confermata segnalano i sintomi attraverso un’applicazione, è emerso che il sintomo più comune è il mal di testa, seguito da naso che cola, mal di gola e febbre. Quindi si tratta di sintomi comuni anche al raffreddore.

Sintomi come tosse e perdita dell’olfatto, invece, sono quasi del tutto scomparsi. Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, durante la conferenza stampa tenutasi venerdì scorso ha affermato: “la variante Delta sembra dare sintomi leggermente diversi: di più a carico dell’apparato respiratorio superiore, come mal di gola, naso che cola, mal di testa e raramente anosmia“.

La comparsa di questi sintomi lievi può rappresentare un problema e favorire la diffusione della variante, perché, essendo riconducibili a un banale raffreddore, il rischio è che molti sottovalutino il malessere e che quindi continuino a circolare ignari del problema.

Maggiore rischio di ricovero?

La maggior parte dei dati raccolti fino ad ora sul ceppo indiano provengono dal Regno Unito, dove i ricercatori hanno sviluppato un sistema rapido (un test del genotipo) per stabilire se i tamponi da analizzare contengono o meno una delle varianti che destano maggiore preoccupazione, come la Delta appunto. Ora anche in Italia kit di questo genere sono in fase di preparazione.

Uno studio scozzese pubblicato sulla rivista Lancet lo scorso 14 giugno ha evidenziato che la variante Delta è associata a un rischio di ospedalizzazione doppio rispetto alla variante Alfa. Lo studio ha preso in esame i dati di 19.543 infezioni e di 377 ricoveri registrati in Scozia tra il 1 aprile e il 6 giugno 2021. Bisogna però sottolineare anche che i pazienti in questione presentavano delle condizioni di base che li esponevano maggiormente al rischio di ricovero.

Infatti Gianni Rezza ha affermato che “non si sa ancora se in termini di ospedalizzazione la variante Delta comporti un rischio maggiore”.

Il richiamo del vaccino sembra essere efficace nel prevenire la malattia grave

Nel Regno Unito sono anche state condotte delle analisi per valutare l’efficacia dei vaccini contro la variante in questione. Anche se molte ricerche presentano dati percentuali leggermente differenti, tutte sembrano comunque concordare sul fatto che i vaccini prodotti da Pfizer-BioNTech e Oxford-AstraZeneca, nonostante una parziale perdita di efficacia, siano comunque validi contro l’infezione, ma solo dopo aver terminato l’intero ciclo vaccinale.

Nel prevenire la malattia grave, invece, entrambi i sieri hanno dimostrato un’efficacia abbastanza alta. La maggior parte delle infezioni di soggetti completamente immunizzati registre nel mondo, infatti, si manifesta con sintomi lievi o addirittura senza sintomi (molti sono asintomatici). Ma questo non fa che contribuire alla diffusione del virus.

Lo studio citato precedentemente, pubblicato su Lancet, ha confermato che le persone vaccinate hanno una probabilità minore di essere ricoverate in seguito all’infezione con la variante Delta rispetto alle persone non vaccinate.

Secondo una stima recente, condotta dal PHE (Public Health England), il vaccino prodotto da Pfizer-BioNTech presente un’efficacia nel prevenire l’infezione di circa il 79% contro la variante indiana, rispetto al 92% contro la variante Alfa, mentre il vaccino prodotto da Oxford-AstraZeneca presenta un’efficacia del 60%, rispetto al 73% iniziale. Nel prevenire le ospedalizzazioni dopo il contagio, invece, Pfizer ha dimostrato un’efficacia del 94% e del 96% a ciclo concuso, mentre AstraZeneca previene i ricoveri al 71% con la prima dose e al 92% dopo la seconda.

Inoltre altri dati recenti pubblicati dal PHE hanno confermato che entrambi questi vaccini sono efficaci contro la variante Delta, ma solo dopo aver ricevuto anche la seconda dose. Con una sola dose di entrambi i sieri, infatti, l’efficacia si aggira attorno al 33% contro la variante indiana, rispetto al 50% contro la variante inglese.

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