Stipendi Ue: Italia unico Paese con salari più bassi di 30 anni fa

Tra i vari primati che l’Italia continua a collezionare, non ultimo quello di Paese con le restrizioni anti-Covid più severe d’Europa, anche quello di unico Paese Ue in cui negli ultimi 30 gli stipendi invece di aumentare sono diminuiti.

Mentre il livello dell’inflazione si attesta intorno all’8%, e tra gli italiani si conta quasi un 10% in condizione di povertà assoluta (5,6 milioni di persone), chi uno stipendio ce l’ha mediamente non se la passa poi così bene, e non basta inserire un bonus una tantum da 200 euro, o qualche sconto sulle bollette di gas e luce per risolvere un problema che nessun governo, evidentemente, ha voluto o saputo affrontare.

Nella maggior parte dei Paesi europei esiste già il salario minimo, in Italia invece no, ma non è l’unico, ci sono anche Finlandia, Grecia, Danimarca, Cipro e Austria. A differenza degli altri Paesi europei però in Italia lo stipendio medio negli ultimi 30 anni non solo non è aumentato, ma è persino diminuito.

Ci sono dati che parlano chiaro, e che ci dicono che dal 1990 al 2020 l’Italia è l’unico Paese membro dell’Ocse in cui gli stipendi sono diminuiti, registrando un calo del -2,9%.

In tutti gli altri Paesi Ue gli stipendi sono invece aumentati, da un minimo del +6,2% della Spagna, fino al primato (in questo caso positivo) detenuto dalla Lituania, dove lo stipendio medio è cresciuto del +276%, seguita da Estonia (+237%) e Lettonia (+200%).

Naturalmente parliamo di realtà economiche molto diverse da quella italiana, in cui ha inciso soprattutto l’ingresso nel mercato occidentale. Il punto però è che tolti i Paesi che prima appartenevano al blocco sovietico, cioè i Paesi baltici e in generale i Paesi dell’Europa dell’Est come Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria dove pure lo stipendio medio è notevolmente cresciuto rispetto a 30 anni fa, anche negli altri Paesi Ue gli stipendi sono aumentati.

Se prendiamo la vicina Francia o la vicina Germania infatti vediamo un aumento dello stipendio medio rispettivamente del +31,10% e +33,70%, e persino in Grecia si registra un +30,5%.

Cosa sta succedendo agli stipendi nei Paesi Ue

La Fondazione Di Vittorio ha recentemente condotto un’analisi partendo dagli ultimi dati pubblicati dall’Eurostat e ha messo così in evidenza l’enorme divario tra la reatà degli stipendi italiana e quella degli altri Paesi membri Ue.

Si parte dall’analisi dello stipendio lordo annuale medio perun lavoratore dipendente nelle quattro principali economie europee, vale a dire Italia, Francia, Germania e Spagna. È emerso che il nostro è l’unico Paese in cui dal 1990 ad oggi si è avuto un calo dello stipendio medio, ma in particolare, prendendo in esame gli ultimi anni, vediamo che nel 2019 in Italia lo stipendio medio era di 29.623 euro, sceso a 27.868 euro nel 2020 complici lockdown e restrizioni anti-Covid, per poi tornare intorno ai 29 mila euro l’anno seguente. Per l’esattezza leggermente al di sotto dei livelli pre-Covid, essendosi fermato a 29.440 euro.

Cos’è successo invece nelle altre tre grandi economie europee? In Spagna lo stipendio medio è più basso di quello italiano, anche se di poco. Si attestava sui 27.587 euro nel 2019, per poi approdare a 27.404 euro nel 2021. In Francia e Germania siamo su cifre completamente diverse, infatti nel primo caso lo stipendio medio del 2019 era di 39.385 euro, che nel 2021 è addirittura salito fino a 40.170 euro, e lo stesso è accaduto in Germania, dove siamo passati dai 43.845 euro del 2019 ai 44.468 euro del 2021.

In Italia invece, nonostante il governo dei migliori sia in carica da fine 2020, gli stipendi continuano a diminuire, e in cambio per contrastare inflazione e prezzi dei prodotti energetici alle stelle abbiamo un bonus da 200 euro una tantum, una riduzione di 30 centesimi delle accise sui carburanti, e sconti sulle bollette di gas e luce riservati alle famiglie con Isee basso.

Gli stipendi in Italia sono ben al di sotto della media dell’eurozona, che si attesta intorno ai 37.382 euro, e per il momento il governo di Mario Draghi, come peraltro tutti quelli che lo hanno preceduto, non è ancora intervenuto per tentare di risolvere un problema che non può più essere ignorato.

Sindacati e Confindustria chiedono infatti un intervento strutturale in grado di impattare in modo determinante sugli stipendi degli italiani: il taglio del cuneo fiscale, cioè del rapporto tra le tasse pagate dal lavoratore e il costo totale che il datore di lavoro deve sostenere per il dipendente.

Il taglio del cuneo fiscale in Legge di Bilancio 2023

Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato che il taglio del cuneo fiscale rientra tra i piani di questo esecutivo, ma si dovrà attendere la nuova manovra economica.

Per la riduzione del costo del lavoratore per le imprese si dovrà quindi aspettare almeno fino all’inizio del nuovo anno, ma nel frattempo ci sono alcune forze politiche che hanno iniziato a fare pressioni sul governo per ottenere un intervento in tempi più brevi.

Fratelli d’Italia per esempio ha presentato un emendamento al decreto Aiuti per un taglio del cuneo fiscale per un totale di 5 miliardi di euro. Le risorse dovrebbero arrivare dalla capienza di cui dispone il Reddito di Cittadinanza. La proposta però ha avuto vita breve, non è piaciuta infatti alle forze di maggioranza che “hanno dimostrato la loro distanza dalle famiglie e dalle imprese” secondo Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI alla Camera dei Deputati.

Sull’argomento si è espresso anche Carlo Calenda, il quale ha ricordato che tagliare il cuneo fiscale è molto costoso, e che per una riduzione del 50% rivolta a tutti i lavoratori occorrono almeno 20 miliardi di euro. Secondo il leader di Azione potrebbe essere una buona idea introdurra una “digital tax”, che di fatto sarebbe una tassa su ogni transazione digitale sulla falsariga di quello che sta facendo la Svizzera.

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