L’Amazzonia brucia ancora, Tra le cause allevamenti intensivi, colture di soia e sfruttamento minerario

A distruggere la foresta dell’Amazzonia, il polmone verde del Pianeta, sono diversi fattori concatenati, dalle monocolture, in particolare di soia, agli allevamenti di bestiame, che necessitano sempre più terra; ci sono poi i minerali preziosi, come l’oro destinato in buona parte al mercato di smartphone e computer, ma anche il mercato del legname, in parte illegale.

Le cause degli incendi che distruggono la foresta più grande della Terra sono molteplici dunque, e hanno radici profonde. L’Amazzonia si estende su otto diversi Stati, ma il 60% si trova in Brasile, il resto principalmente in Perù e Bolivia.

“La principale causa di deforestazione è l’abbattimento degli alberi per creare nuovi pascoli per il bestiame” dice Martina Borghi di Greenpeace, e secondo la Fao l‘80% delle aree disposcate sono diventate pascoli. “Quello che succede è questo: chi arriva di fronte alla foresta vergine abbatte le specie arboree di maggior pregio e poi si brucia il resto” spiegano “il terreno ‘pulito’ va occupato, per reclamare la proprietà, e il modo più veloce è con le mucche”.

Vista la domanda crescente di carne, gli allevatori hanno continuamente bisogno di nuova terra da destinare al pascolo. In base ai dati diffusi dal Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti d’America (USDA) il Brasile è il primo esportatore al mondo di carne bovina. La carne esportata è principalmente destinata alla Cina e a Hong Kong, mentre in Europa ne arriva solo il 7% circa.

Inoltre è emerso di recente che la Finlandia potrebbe interrompere l’importazione di carne dal Brasile, come proposto in occasione del G7 a Biarritz dal ministro delle finanze Alexander Stubb.

Le conseguenze della deforestazione dell’Amazzonia sull’atmosfera

La professoressa Maria Nicolina Ripa, presidente del corso di laurea in Scienze delle foreste e della natura dell’Università della Tuscia ha spiegato che “complessivamente la riduzione della superficie della foresta pluviale amazzonica è del 15% rispetto alle condizioni iniziali“.

Un dato preoccupante che va accostato ad un altro dato di fatto non meno allarmante. “La foresta pluviale non brucia spontaneamente, protetta com’è dall’elevata umidità. Nella maggior parte dei casi gli incendi sono causati dall’uomo: avere più terra da destinare all’agricoltura e al pascolo è una delle maggiori cause di deforestazione, gli incendi sono una conseguenza”.

Altre attività umane che minacciano la foresta dell’Amazzonia sono quelle correlate al traffico illegale di legname ma anche lo sfruttamento minerario. La domanda di metalli preziosi, in primis l’oro, è dovuta soprattutto al mercato di dispositivi quali smartphone, tablet e pc.

L’impatto sul clima è enorme, perché se si distrugge la foresta a questa velocità, si riduce notevolmente la capacità del ‘polmone verde’ di stoccare anidride carbonica. Inoltre nel bruciare, gli alberi rilasciano grandi quantità di CO2 nell’atmosfera, quantità che secondo le stime della Fao si aggirano intorno alle 200 milioni di tonnellate l’anno.

Gli effetti ricadono sull’atmosfera e sul clima. “La deforestazione e gli incendi influiscono anche sulle piogge” spiega la Ripa “la foresta ‘produce’ la pioggia perché le piante, attraverso la traspirazione, immettono grandi quantità di vapore in atmosfera, che poi ricade al suolo sotto forma di pioggia, anche in aree molto distanti. La riduzione delle foreste quindi contribuisce all’aumento della siccità”.

Si innesca così una serie di eventi a catena, perché con l’aumento della siccità si facilita la propagazione di incendi. A pagarne il prezzo sono prima di tutto le comunità indigene locali, la cui casa viene letteralmente data alle fiamme. A bruciare, dall’inizio dell’anno, sono stati oltre 43.753 chilometri quadrati di foresta, ed ovviamente viene messa a rischio la stessa sopravvivenza di specie animali considerate a rischio estinzione, che secondo una stima del Wwf sarebbero 265.

L’Amazzonia in fiamme per produrre carne e soia

Un rapporto Fao del 2013 descrive un quadro sicuramente interessante. Risulterebbe infatti che la produzione di carne e quindi la presenza degli allevamenti di bestiame, sarebbe responsabile del 14,5% delle emissioni di gas serra causate dall’uomo, soprattutto di quelle di metano e protossido di azoto, che sono poi quelle che hanno un maggiore impatto sull’ambiente.

Sempre dall’indotto della carne arrivano altre emissioni di gas serra: quelle relative al trasporto e alla distribuzione per far arrivare la carne letteralmente dal produttore al consumatore. Poi però per completare il quadro siamo costretti a fare un passo indietro, e prendere in esame anche i mangimi utilizzati per nutrire gli animali.

Per alimentare il bestiame degli allevamenti occorre molta terra che viene destinata al foraggio, ai cereali, ai legumi e ai semi che costituiscono i loro alimenti. La soia, un alimento noto soprattutto a chi pratica una dieta vegetariana, è uno dei nemici della foresta, perché viene utilizzato soprattutto per l’industria degli allevamenti.

Martina Borghi di Greenpeace spiega che “le monocolture sono un altro problema. Questo non succede moltissimo in Amazzonia, dove c’è una moratoria contro la produzione di soia, almeno formalmente, bensì nel Cerrado, che era una savana ricchissima di biodiversità”.

La stragrande maggioranza della soia che viene prodotta non va a finire sulle tavole, ma nelle mangiatoie, specie in quelle dei maiali, di cui la Cina è il principale allevatore, e di conseguenza il principale importatore di soia al mondo.

Secondo uno studio dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), la Cina, che ha sempre importato la soia dagli USA, in seguito ai dazi imposti dal governo Trump, ha dovuto rivolgere l’attenzione verso un altro produttore: l’America Latina. Ecco come gli imprenditori agricoli di Mato Grosso hanno deciso di trasformare la giungla in una distesa di campi coltivati.

La trasformazione è stata sicuramente redditizia in termini economici, visto un export garantito verso un Paese come la Cina, ma in termini di impatto ambientale il costo è elevatissimo. Acque inquinate, suolo fertilizzato chimicamente, interi ecosistemi distrutti.

“Noi di Greenpeace non chiediamo il boicottaggio dei prodotti brasiliani” spiega la Borghi “ma chiediamo all’Europa una sospensione dei rapporti commerciali con il Mercosur, finché non verrà garantito il pieno rispetto di diritti umani e ambiente” e conclude poi “stiamo anche chiedendo alle multinazionali, soprattutto quelle del cibo come McDonald e Burger King, tracciabilità e trasparenza nelle filiere, prima di continuare ad acquistare materie prime agricole”.

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