Manovra economica 2020 e svolta green: ecco perché la Plastic Tax non funzionerà

Il governo Conte bis si ritiene ecologista, parla di svolta green e dell’importanza di sensibilizzare il consumatore affinché assuma comportamenti responsabili. A tal fine, almeno a parole, si è pensato di introdurre nella manovra economica 2020 la cosiddetta Plastic Tax, una nuova tassa sugli imballaggi di plastica.

Con la Plastic Tax si introduce una microtassa di 1€ per chilogrammo di imballaggio di plastica per tutti quei prodotti che vanno dalla bottiglia d’acqua, ai prodotti per il bagno, alle pellicole trasparenti dei pacchetti di sigarette. Insomma su tutto ciò che viene venduto confezionato in imballaggi di plastica, e la nuova tassa dovrebbe partire da maggio 2020.

Plastic Tax, un provvedimento inefficace

Ma proviamo a vedere come si applicherà la plastic tax, e quali effetti potrebbe produrre sui prezzi e di conseguenza sulle abitudini dei consumatori. Per una bottiglia da mezzo litro di acqua minerale, che pesa circa 10 grammi, la tassa avrebbe l’importo di 1 centesimo a bottiglia. Il prezzo della singola bottiglia passerà quindi da 50 centesimi a 51 centesimi di euro.

Si tratterebbe di un aumento del 2% in termini inflazionistici, ma non sarà assolutamente questo ad indurre il consumatore a modificare le proprie abitudini. Difficilmente quel centesimo di differenza di prezzo, (ammesso che il prezzo finale del prodotto in tal senso venga realmente modificato) porterà il consumatore a scegliere un prodotto diverso, ad esempio optando per acqua minerale in bottiglia di vetro.

La soluzione del vetro poi è in realtà una non-soluzione. Infatti l’utilizzo di bottiglie di vetro comporterebbe costi molto maggiori per il trasporto, dato il maggiore peso, ma anche per il riciclaggio del materiale, che richiede temperature molto più alte, fino a 1000/1500 °C, contro quelle per il processo di riciclaggio della plastica PET, che arrivano a 260 °C circa.

In definitiva, vista la variazione di costo insignificante, e vista la pressoché totale assenza di alternative valide, quantomeno in Italia, il consumatore non varierà affatto le sue abitudini, e i produttori continueranno a soddisfare la medesima domanda anche dopo l’introduzione della plastic tax, continuando a produrre bottiglie di plastica esattamente come facevano prima.

Gli incentivi per il riciclaggio della plastica

Sarebbe stato più utile puntare su incentivi in grado di indurre un sempre maggior numero di consumatori a smaltire gli imballaggi di plastica, a cominciare appunto dalle classiche bottiglie d’acqua, riciclandole attraverso la raccolta differenziata.

In Germania ad esempio esiste già dagli anni ’90 un sistema che permette il recupero dei vuoti a rendere, anche attraverso l’installazione di apposite macchinette automatiche all’interno delle quali si possono conferire le bottiglie di plastica da smaltire.

In Italia però, fino ad oggi non si è mai deciso di agire in maniera concreta per sensibilizzare il consumatore che non “crede nella differenziata” a compiere il suo dovere civico, e si è preferito, ad esempio con la Plastic Tax, produrre un maggior introito per le casse dello Stato.

Come detto prima, l’alternativa del vetro è persino più inquinante in termini di emissioni di CO2, quindi non la si può ritenere valida se vogliamo ragionare in un’ottica green. Ma se proprio non vogliamo seguire l’esempio della Germania, si potrebbe incentivare la diffusione delle cosiddette “casette dell’acqua” che in Italia esistono già, seppur in numero piuttosto limitato.

Si potrebbe ad esempio ragionare sulla possibile introduzione di incentivi pubblici per facilitare la diffusione di queste strutture nelle nostre città. Viene erogata acqua trattata, indubbiamente più gradevole al palato rispetto all’acqua del rubinetto, e già adesso generalmente più economica dell’acqua minerale imbottigliata che si trova nei supermercati. La diffusione di queste “casette dell’acqua”, accompagnata da una progressiva maggiorazione del costo degli imballaggi di plastica potrebbe indurre il consumatore a variare concretamente le proprie abitudini.

Se si vuole realmente portare i produttori stessi a modificare le proprie scelte, è necessario concedere loro il tempo necessario a reimpostare in modo differente le proprie politiche produttive. Bisognerebbe quindi fissare un piano pluriennale di aumento progressivo delle imposte sugli imballaggi di plastica, lasciando alle imprese il tempo che occorre per pianificare investimenti diversi e adeguarsi alle nuove esigenze di mercato.

Il maggior volume di rifiuti di plastica è costituito chiaramente dalle bottiglie d’acqua, ma non esclusivamente. Prendiamo ad esempio il classico pacchetto di sigarette, che acquistiamo avvolto nel cellophane, il cui peso è di 1 grammo circa. Su questo imballaggio in plastica la microtassa pensata dall’esecutivo giallo-rosso peserà ben poco: 0,001€.

In che modo potrebbe un simile importo modificare le scelte di produttori e di consumatori? Senza contare che sempre restando sul tema sigarette, un discorso altrettanto interessante da affrontare sarebbe quello dei filtri, che non vengono né tassati, né resi obbligatoriamente biodegradabili. Insomma come se non inquinassero.

La plastica nel Mar Mediterraneo

Iniziamo col dire che non è l’uso della plastica in sé a produrre inquinamento, ma la sua dispersione nell’ambiente. Il che significa che se si incentiva il consumatore a smaltire correttamente il rifiuto di plastica invece di gettarlo nell’ambiente, l’obiettivo è da ritenersi raggiunto.

Il risultato del mancato riciclaggio della plastica e della sua dispersione nell’ambiente è l’inquinamento dei mari. Prendiamo ad esempio il Mar Mediterraneo, sul quale si affacciano molti Paesi europei ma non solo, in buona parte Paesi che non hanno adottato ancora alcuna politica sul riciclaggio dei rifiuti, o Paesi in cui tali politiche sono adottate ma per una serie di motivi, culturali e sociali, risultano inefficaci.

In questa mappa si possono osservare alcuni dati interessanti che riguardano il corretto smaltimento dei rifiuti di plastica.

Plastic%20mapSi nota in maniera chiara che mentre la maggior parte dei Paesi europei smaltisce correttamente i rifiuti (l’Italia come al solito non è tra i più civili) ad incidere maggiormente sulla dispersione della plastica nell’ambiente sono Paesi che non appartengono all’Ue, come Montenegro, Albania, Egitto, Turchia, e Paesi dell’Africa.

Sarebbe quindi più opportuno tentare di instaurare dei rapporti di collaborazione con questi Paesi al fine di ridurre concretamente la dispersione delle plastiche nell’ambiente, incentivando soprattutto il riciclaggio.

Basterebbe una maggiore informazione nel nostro stesso Paese, per evitare che determinati episodi si verifichino. I pescatori ad esempio tendono ad avere la pessima abitudine di abbandonare le reti in mare invece di smaltirle correttamente, mentre i cittadini più in generale non solo spesso non destinano correttamente i rifiuti di plastica riciclabile, ma anche quelli di plastica non riciclabile.

Questi ultimi finiscono in mare alimentando il fenomeno dell’inquinamento da microplastiche, delle quali finiscono per nutrirsi i pesci con conseguenze spesso letali. Microplastiche di cui inevitabilmente finiscono per nutrirsi poi indirettamente tutti coloro che includono il pesce nella propria alimentazione.

Un altro aspetto da considerare è quello dell’utilizzo di indumenti realizzati interamente o in parte con fibre sintetiche. In questo caso abbiamo l’immissione in mare di microfibre di plastica di dimensioni comprese tra 0,33 mm e 1 mm, che provengono soprattutto dagli scarichi delle nostre lavatrici.

Nel corso del lavaggio infatti gli indumenti si sfibrano. Quelli che sono realizzati interamente o in parte con fibre sintetiche come acrilico, neoprene, poliestere, nylon, finiscono per essere altamente inquinanti. Le microfibre che sono troppo piccole per essere filtrate dai depuratori vengono sversate in mare dove diventano parte della catena alimentare marina.

Non sarebbe quindi una cattiva idea quella di incentivare l’utilizzo nell’industria tessile di alternative naturali come cotone, lino, lana e così via, magari tassando gli abiti realizzati con fibre sintetiche, o vietandone del tutto la produzione o l’importazione.

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