Accordo Ue sulle emissioni, alcuni settori continueranno ad inquinare gratis

Le regole del mercato europeo del carbonio, nato proprio per rendere più costose le emissioni di CO2, ma pieno di eccezioni per i grandi inquinatori, consentiranno ai produttori di alluminio e acciaio, alle acciaierie, raffinerie, cementieri, aziende chimiche e pellettieri di continuare a inquinare gratis anche per il prossimo anno.

A partire da gennaio entrerà in vigore la fase 4, che dovrebbe rendere più vicino l’obiettivo della neutralità climatica. Tuttavia, per i principali settori che fino ad oggi hanno ricevuto gratuitamente i “diritti ad inquinare”, non cambierà nulla. Tra questi vi è il settore dell’aviazione, le cui emissioni a partire dal 1990 sono aumentate del 130%.

Tutto ciò è alquanto difficile da giustificare considerando anche che Commissione e Parlamento europeo hanno recentemente deciso di aumentare gli standard in nome del Green Deal. L’esecutivo Ue ha infatti annunciato l’intenzione di ridurre i gas inquinanti del 55% rispetto ai livelli del 1990. Proposta accolta lo scorso giovedì notte dai Capi di Stato di tutti i Paesi membri dell’Ue, mentre l’Eurocamera chiedeva una riduzione del 60%.

La riforma richiederà anni

Per raggiungere tutti gli obiettivi nel tempo previsto è di fondamentale importanza rendere efficace l’Ets (Eu Emission Trading System), che dal 2005 fissa un tetto massimo alla quantità di CO2 che può essere emessa e impone a chi lo fa di acquistare i relativi diritti presenti su un mercato virtuale.

Come affermato dalla stessa Corte dei Conti Ue, però, la realtà è ben diversa. Infatti per evitare il teorico rischio che le aziende delocalizzino i loro stabilimenti al di fuori dell’Europa, i settori responsabili del 94% delle emissioni riceve questi permessi gratuitamente.

Valdis Dombrovskis, vicepresidente esecutivo della Commissione, a settembre ha annunciato che nel corso del 2021 l’Ets verrà completamente rivisto e saranno eliminate progressivamente le quote gratuite, con la contemporanea introduzione di una nuova tassa che verrà applicata ai beni importati da Paesi con standard ambientali più permissivi (carbon tax alla frontiera).

I tempi previsti però non sono esattamente dei più brevi, infatti si parla di giugno per la proposta e, nel peggiore dei casi, di gennaio 2023 per l’entrata in vigore delle modifiche.

I prossimi mesi inoltre saranno importanti per definire ulteriormente la riforma e le trattative con i vari Paesi si preannunciano tutt’altro che semplici. La Polonia, ad esempio, in cui è situata la centrale a carbone più inquinante d’Europa, è riuscita ad ottenere un inserimento nelle conclusioni del Consiglio europeo riguardo la necessità di “misure che consentano alle industrie ad alta intensità energetica di sviluppare tecnologie climaticamente neutre mantenendo nel contempo la loro competitività industriale“.

L’ipotetico rischio di delocalizzazione

Vi sono poi anche le lobby, che continuano a fare pressioni per non rischiare di perdere tutti i privilegi di cui hanno goduto fino ad oggi, e per farlo tirano in ballo la crisi legata alla pandemia e la possibilità di trasferirsi al di fuori dei confini europei per sottrarsi al pagamento di eventuali costi aggiuntivi.

Si tratta del cosiddetto “carbon leakage“, argomento su cui le associazioni che riuniscono i grandi produttori, come Cembereau per il cemento e Eurofer per l’acciaio, fanno leva ogni volta che si prende in esame la possibilità di apportare modifiche a loro svantaggio.

Ma il rischio delocalizzazione è mai stato effettivamente concreto? Stefano Verde, vicedirettore della Florence School of Regulation Climate, ha affermato: “le analisi empiriche ci dicono che finora non ha rappresentato un problema. L’Ets non ha avuto impatto sulla competitività“.

Quindi ad oggi è stato del tutto improbabile che un’acciaieria o un cementificio venissero trasferiti in un Paese diverso per colpa del sistema.

“In teoria, comunque, la ratio stessa dell’assegnazione gratuita di quote verrà meno con l’introduzione della carbon tax alla frontiera“. Perché nel momento in cui materiali come acciaio, alluminio o altri prodotti chimici prodotti in Cina o India verranno importati in Europa, la carbon tax azzererà il loro vantaggio competitivo e le aziende europee non avranno più alcun bisogno di trasferirsi altrove.

La richiesta delle lobby

Nell’ambito della consultazione pubblica lanciata dalla Commissione, BusinessEurope, ossia la Confindustria europea, ha già messo in guardia sui “notevoli rischi e incertezze” che potrebbero emergere se si decidesse di sostituire le vecchie regole con la nuova carbon tax.

Molte associazioni, tra cui Cembureau, che rappresenta gli acciaieri, Cefic, che riunisce l’industria chimica, e European Aluminium hanno chiesto che la nuova tassa non sostituisca ma affianchi le quote gratuite di cui già godono.

Molti si sono detti d’accordo, tra cui LafargeHolcim, ArcelorMittal e ThyssanKrupp. In particolare Arcelor, affituaria dell’ex Ilva, nella sua memoria di 23 pagine, ha affermato: “le regole sul carbon leakage per il periodo che va fino al 2030 sono state adottate molto recentemente e non dovrebbero essere cambiate“.

Poi continuando si legge anche che “una tassa alla frontiera che rimpiazzi le misure attuali minerebbe la capacità dei produttori Ue di investire in tecnologie innovative necessarie per adempiere agli obblighi di riduzione delle emissioni“.

Anche l’associazione dell’industria ceramica ha utilizzato parole molto simili nel proprio documento: “qualsiasi calo della protezione del carbon leakage di qui al 2030 metterebbe seriamente a rischio l’abilità del settore di investire in nuove tecnologie“.

Resta quindi da vedere chi effettivamente avrà la meglio tra le ambizioni verdi della nuova Commissione e gli interessi aziendali e nazionali.

Bisogna anche ammettere che la pressione esercitata dai lobbysti negli scorsi mesi ha avuto i suoi frutti. Infatti grazie ad essi sono state riviste le linee guida degli aiuti di Stato concessi dall’Ue, in aggiunta alle quote gratuite, per sostenere le aziende del maggior prezzo dell’elettricità legato all’Ets.

I produttori di energia infatti devono pagare le quote per la CO2 emessa, ma riversano parte della spesa sui clienti. Quindi alla fine dei conti la maggior parte dei settori inquinanti è addirittura rimasta nella lista di quelli a cui spettano dei compensi.

Le eccezioni in questo caso sono davvero poche, ed includono l’industria ceramica e la produzione di fertilizzanti. Fertilizers Europe si è infatti detta sconcertata da questa decisione basata su dati incompleti e che “causa uno svantaggio competitivo ai produttori che hanno parzialmente elettrificato le loro fabbriche“.

Settore energetico e calo delle emissioni

Il fatto di assegnare gratuitamente queste quote riduce senza dubbio anche l’efficacia dell’intero sistema di raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni.

Da anni la quantità di CO2 emessa dai grandi produttori di energia cala grazie ai numerosi interventi di decarbonizzazione effettuati, ma quella emessa dall’industria resta più o meno stabile.

Infatti nel 2019 è stata registrata una riduzione complessiva del 4%, che l’Agenzia europea per l’ambiente ha definito la migliore performance del decennio. A questo risultato la manifattura ha contribuito ben poco, con un -2%, mentre l’aviazione ha segnato un +1%, andando quindi in controtendenza.

Il contributo principale invece è stato dato dal settore dell’energia elettrica, che grazie al passaggio da carbone e lignite a rinnovabili e gas, ha reso possibile una diminuzione del 15% delle emissioni di CO2.

Estensione a veicoli e costruzioni

Se nei prossimi anni la situazione dovesse continuare ad essere simile a quella attuale, gli obiettivi posti dalla Commissione sotto la guida di Ursula von der Leyen risulterebbero irraggiungibili.

Una delle ipotesi per cercare di dare una svolta è quella di estendere l’applicazione dell’Ets anche ai settori non manifatturieri, come il trasporto su gomma e le costruzioni. Alcuni Paesi infatti stanno già muovendo in autonomia i primi passi verso questa direzione, come ad esempio la Germania, che dal prossimo gennaio imporrà un costo alle emissioni di edifici e trasporti.

Molte associazioni ambientaliste, come Carbon Market Watch, tuttavia ritengono che includerli nell’Ets non porterebbe a un grosso vantaggio in termini di riduzione dell’inquinamento, e che anzi ciò potrebbe essere utilizzato dalle aziende “come scusa per minare normative già esistenti e più efficaci, come quelle sulle emissioni delle auto e sull’efficienza energetica delle costruzioni”.

Anche il ricercatore Verde si è espresso in merito, affermando che “c’è un rischio di impatto sulle famiglie che dev’essere preso in considerazione”.

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