Biocarburanti di prima e seconda generazione, cosa cambia per l’ambiente?

I biocarburanti, a differenza di quelli tradizionali che derivano da combustibili fossili, sono carburanti che vengono prodotti a partire dalle biomasse o dagli oli vegetali, primari, di scarto o post consumo, e quindi da una materia prima biologica.

Nonostante questi carburanti presentino il vantaggio di derivare da materie prime rinnovabili, non sempre possono essere definiti la soluzione migliore per l’ambiente. Come affermato da Valerio Coppini, vp Business Development NextChem, gli ultimi progressi effettuati in campo industriale hanno infatti evidenziato alcuni limiti dei biocarburanti di prima generazione, ossia quelli che non provengono da scarti ma da prodotti agricoli o forestali primari, dal punto di vista ambientale.

Un esempio è dato dai carburanti ottenuti partendo dall’olio di palma. “Pur essendo un prodotto verde, l’utilizzo diquesta materia implica deforestazioni importanti, alti consumi energetici e l’utilizzo di grandi quantità di risorse idriche. Si tratta, dunque, di un biocarburante che non partecipa di fatto alla decarbonizzazione”.

Giacomo Rispoli, ad di MyRechemical, controllata di NextChem, ha poi sottolineato che altri biocarburanti di prima generazione possono invece ridurre la disponibilità di derrate alimentari “quando si utilizzano prodotti coltivati su campi che potrebbero essere impiegati per prodotti alimentari: tema che sarà sempre più sensibile nei prossimi anni, vista la crescita demografica prevista, che potrebbe proiettare la popolazione del pianeta a ben 10 miliardi di persone“.

La soluzione a questo problema sembra essere rappresentata dai biocarburanti di seconda generazione, ovvero quelli ottenuti da scarti, anche “post-consumo”, agricoli, forestali e alimentari. In questo caso, infatti, i biocarburanti rivestirebbero una doppia funzione a favore dell’ambiente, rappresentando quindi un valido strumento per la decarbonizzazione, favorendo una mobilità più sostenibile, e al tempo stesso rappresenterebbero una soluzione “circolare“.

Coppini ha poi spiegato che “grazie alla normativa della Red II in Europa e alle nuove norme negli Stati Uniti, sta prendendo piede un nuovo concetto di biocarburanti“, che si pone come obiettivo primario quello della riduzione delle emissioni di CO2, evitando però il conflitto con la produzione di cibo. In altre parole, questa nuova concezione “evolve il concetto bio in un concetto di bassa intensità carbonica”, come spiega Coppini.

“Un carburante a bassa intensità di carbonio è un carburante che consente di ridurre drasticamente le emissioni di CO2. I carburanti di seconda generazione vengono prodotti a partire da biomasse e hanno una carbon intensity notevolmente più bassa rispetto a tutti gli altri, non entrando in competizione per la riduzione di cibo”.

E’ dunque questo il cambiamento che sta avvenendo nel mercato dei biocarburanti, infatti minore è la loro intensità di carbonio e tanto maggiore è il loro valore sul mercato, perché contribuiscono maggiormente alla decarbonizzazione.

A che punto è la tecnologia?

Coppini ha poi aggiunto che le tecnologie esistono già, sono state infatti già provate industrialmente e i prodotti sono già in commercio. “Noi abbiamo due tecnologie per produrre diesel rinnovabile ed etanolo di seconda generazione“.

“Il diesel rinnovabile è un prodotto idrocarburico che viene fatto a partire dagli scarti di oli vegetali o grassi di scarto dell’industria alimentare, che vengono trasformati in una molecola che è identica al diesel e che entra nel motore delle nostre automobili”.

L’etanolo di seconda generazione, invece, è un “prodotto che viene utilizzato nel blending della benzina ed è già commercializzato, soprattutto negli Stati Uniti e in America Latina: esiste un impianto in Brasile e stiamo implementando dei progetti anche per il mercato europeo”.

I carburanti a bassa intensità di carbonio, però, possono anche essere ottenuti tramite la conversione chimica dei rifiuti, come ad esempio i rifiuti plastici. Rispoli ha infatti affermato che una tecnologia ideata proprio da NextChem è in grado di convertire l’idrogeno e il carbonio presenti all’interno dei rifiuti plastici e secchi, “in un gas di sintesi che poi può servire come base per produrre combustibili e carburanti low carbon, come metanolo, idrogeno ed etanolo circolari”.

Volendo fare un esempio, infatti, come analizzato da Rispoli, basta immaginare che attualmente la mobilità in mare è basata sull’olio combustibile come carburante e ciò produce grandissime quantità di CO2, ma in futuro potrà finalmente essere sostituito da metanolo proveniente dai rifiuti, che rappresenta una molecola molto più semplice.

Inoltre, sempre partendo dai rifiuti è possibile ottenere anche idrogeno circolare. “Un chilo di idrogeno prodotto in modo convenzionale, partendo dal gas metano, genera dieci chili di CO2. Producendolo con la nostra tecnologia di riciclo chimico dei rifiuti, invece, l’emissione di CO2 arriva a un chilo e il costo di produzione è di poco superiore all’idrogeno convenzionale e molto più basso dell’idrogeno cosiddetto elettrolitico”.

Quest’ultimo, l’idrogeno elettrolitico (anche detto idrogeno verde), rappresenta l’ultimo tassello del portafoglio di NextChem e viene prodotto tramite elettrolisi partendo da acqua ed energia rinnovabile. “Stiamo portando avanti dei progetti, tra i primi al mondo, per trasformare l’energia solare in idrogeno e utilizzarlo come fuel da autotrazione“, afferma Coppini.

Raspoli invece aggiunge che proprio dai rifiuti è possibile ottenere dei componenti per benzine e gasoli a bassa intensità di carbonio, perfettamente allineati con le indicazioni ricevute dall’Ue sulla riduzione delle emissioni di CO2.

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