Tassa su merendine e bibite, già fatto in Ungheria, UK, Danimarca, ma la “health tax” non sempre funziona

In questi giorni si sente spesso parlare della cosiddetta tassa sulle merendine, che in realtà non si limiterebbe a brioche e dolcetti, ma riguarderebbe anche le bevande gassate. Si tratta di una specie di health tax quindi, che va a colpire quei prodotti ritenuti dannosi per la salute in quanto ricchi di zuccheri e non esattamente parte di una dieta sana.

Il modello ungherese si è rivelato un ottimo esempio a livello internazionale, mentre nel Regno Unito una tassa simile ha avuto meno successo di quel che ci si aspettava, perché le aziende hanno ridotto drasticamente la quantità di zuccheri in bevande e snack. Anche in Danimarca era stata introdotta, e ci è rimasta per quasi 80 anni, ma danneggiava l’economia ed è stata abolita.

La chiamano “health tax” oppure anche “sin tax” nel primo caso con riferimento alla salute, mentre nel secondo al peccato, quello di gola che in termini di salute appunto, tende ad avere un costo salato anche per lo Stato. Così anche in Italia è arrivata una proposta simile dal ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che vorrebbe servirsene anche per finanziare la scuola.

La health tax, per il ministro Fioramonti servirebbe ad incentivare “attività utili e stili di vita sani”, e il presidente del Consiglio, intervistato da Bruno Vespa ha definito la cosa “praticabile”. Le critiche però non hanno tardato ad arrivare, e non sono giunte solo dall’opposizione, ma anche dall’interno della maggioranza.

Luigi Di Maio ha dichiarato di essere d’accordo con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte quando dice di essere intenzionato ad abbassare le tasse, e non quando ne prospetta l’introduzione di nuove.

In molti Paesi però la tassa sulle merendine è stata introdotta, e qualche volta anche con risultati positivi, specie negli Stati Uniti. Il criterio che ha portato a questa decisione è sempre legato a filo doppio a salute e spesa pubblica, visto che allo Stato servono sempre maggiori entrate per investire in sanità e progetti educativi, ma non solo.

Attraverso una riduzione del consumo di bevande e snack dolci si dovrebbe ridurre l’incidenza di diabete, obesità e malattie cardiovascolari sulla spesa sanitaria dello Stato. Introdurre una tassa che deincentivi il consumo di alcuni prodotti alimentari può effettivamente incidere sulle abitudini dei consumatori, rendendole più sane, ma al contempo anche sollecitare i produttori a sviluppare ricette contenenti meno zuccheri.

In Italia le cattive abitudini in termini di alimentazioni hanno portato ad una ampia diffusione di obesità e diabete, basti pensare che nel nostro Paese un Italiano su due è sovrappeso, dato che tende persino a peggiorare al Sud e tra i non laureati. E non dimentichiamo che l’obesità è “la seconda causa evitabile di tumori dopo il fumo”.

Secondo uno studio realizzato nel 2012 dalla Fondazione Policlinico Tor Vergata, nei Paesi occidentali le conseguenze sulla salute delle cattive abitudini alimentari gravano sul bilancio dello Stato. Lo studio ha rilevato che in media i costi legati all’eccesso di peso gravano sulla spesa pubblica in una misura che va dal 4 al 10% della spesa sanitaria nazionale.

Il Centro studio ricerca sull’obesità ha calcolato che nel 2016 in Italia l’impatto economico, comprensivo del calo della produttività e della mortalità precoce, ha raggiunto i 9 miliardi di euro. Per quel che riguarda invece il diabete, i malati nel nostro Paese sono circa il 5% della popolazione, una percentuale che negli ultimi trent’anni è quasi raddoppiata, sia a causa dell’invecchiamento della popolazione, che per l’aumento della sopravvivenza dei malati, anche grazie a una diagnosi precoce.

Per ogni diabetico lo Stato, tra assistenza ambulatoriale, ospedaliera e trattamenti, spende ogni anno circa 2.800 euro, per un totale che raggiunge gli 8 miliardi di euro annui. E sono proprio queste spese che, come già sperimentato in altri Paesi, potrebbero essere finanziate da una tassazione di prodotti alimentari che contengono troppi zuccheri.

Al tempo stesso queste spese si potrebbero ridurre modificando le proprie abitudini alimentari a favore di uno stile di vita più sano e consumi più attenti, ed è proprio in questa direzione che dovrebbe portare una ipotetica tassa sulle merendine.

La Sugar Tax nel Regno Unito

In Gran Bretagna la Sugar Tax ci è arrivata piuttosto di recente, si parla dell’aprile del 2018, quindi è da poco più di un anno che la stanno sperimentando. In UK si trova uno dei più alti tassi di obesità del mondo occidentale, e la tassa è stata concepita non tanto per ridurre i consumi di snack dolci e bevande gassate, ma per arrivare a monte del problema, inducendo i produttori a ritoccare i propri prodotti rendendoli meno dannosi.

La norma è stata strutturata in questo modo: una maggiorazione di 18 pence al litro sulle bevande che ogni 100 ml contengono tra i 5 e gli 8 grammi di zucchero, oppure 24 pence al litro per le bevande che ogni 100 ml contengono una quantità superiore agli 8 grammi di zucchero. Fanno eccezione i succhi di frutta e verdura senza succheri aggiunti e bevande a base di latte.

I dati che riguardano l’obesità in Gran Bretagna sono a dir poco allarmanti. Stando ai dati raccolti dall’ Nhs (National Health System) oltre 1 Britannico su 4 è obeso, mentre il 2% degli uomini e il 4% delle donne si trovano in una condizione di obesità grave.

Molto alto di conseguenza il numero di ricoveri ospedalieri legati all’obesità, che tra il 2015 e il 2017 sono aumentati dell’8% raggiungendo le 10.705 unità. Tra il 2016 e il 2017 nel Regno Unito sono stati eseguiti 6.700 interventi di chirurgia bariatrica (finalizzata alla riduzione dell’obesità) il cui 77% riguardava pazienti donne.

Il quadro generale mostra in sostanza che su una popolazione di 66 milioni di persone il 5,6% ha il diabete (circa 3,7 milioni), e in base ai dati raccolti dalla School of London Hygiene and Tropical Medicine, 73mila persone ogni anno muoiono per cardiopatie e malattie coronariche, mentre altre 40mila muoiono d’infarto.

Ma la Sugar Tax alla fine ha funzionato? Il Tesoro prevedeva di incassare circa 500 milioni di sterline l’anno, un traguardo che è stato rivisto al ribasso e si è stabilizzato quindi intorno ai 240 milioni. Questo per via del fatto che il 50% dei produttori ha rapidamente riformulato la quantità di zuccheri all’interno di snack e bibite evitando così di essere colpito dalla tassa.

A conti fatti nei primi quattro mesi dalla sua introduzione la Sugar Tax ha portato nelle casse dello Stato 154 milioni di sterline, che secondo quanto riportato dal Financial Times, sono andate a finanziare misure contro l’obesità infantile, la promozione dello sport e piani di alimentazione più sana nelle scuole.

La “fat tax” fallisce in Danimarca danneggiando l’economia

In Danimarca una tassa simile a quella che potrebbe arrivare in Italia, è stata in vigore per circa 80 anni e si chiamava sugar tax, ma alla fine, si parla del 2014, la tassa è stata abolita perchè senza tanti giri di parole, danneggiava l’economia.

“Questa decisione è il risultato dei nostri sforzi per mettere in luce l’impatto negativo della tassa” ha dichiarato Niels Hald, segretario dell’associazione danese per i soft drink Bryggeriforeningen “Il governo danese ha riconosciuto le conseguenze sui lavoratori vicini al confine e sul commercio”.

Questo il commento alla decisione del governo danese di fare marcia indietro, e di porre fine alla “sugar tax” che è stata quindi eliminata in due fasi. Da luglio 2013 è stata ridotta del 50%, poi a partire dal primo gennaio 2014 è stata completamente soppressa.

La sua storia è iniziata negli anni ’30 e nel 2013, prima di essere abolita, consisteva in un’accisa di 0,22 euro per litro sulle bevande gassate, con entrate per lo Stato di circa 60 milioni di euro l’anno, a fronte di un ammanco in termini di IVA di circa 40 milioni di euro, evasi con la vendita illegale dei soft drink.

Una sorte simile è toccata anche alla “fat tax”, introdotta dal governo nel 2011 per tassare non il prodotto ma il nutriente, aumentando quindi il prezzo dei prodotti che superavano il 2,3% di grassi. Tra questi rientravano anche alimenti come il burro, la pizza, la carne e i latticini, ma come anticipato, la sorte è stata la stessa.

Il risultato di fat tax e sugar tax in Danimarca è stato che i consumatori, per risparmiare, andavano a comprare quei prodotti in Germania o in Svezia, con conseguenze pesanti sull’economia e, soprattutto nelle città vicine al confine, anche sull’occupazione.

Secondo il Danish Agricolture and Food Council in questo modo si sono persi 1.300 posti di lavoro, con conseguenze anche sul consumo di benzina e gasolio, aumentati sia per il maggior consumo dei produttori che per quello dei consumatori, costretti a comperare fuori dalla Danimarca prodotti che avrebbero potuto facilmente reperire dietro casa, ma a un costo maggiorato.

Non si sono neppure riscontrati effetti particolarmente benefici sulla salute. Nei primi mesi di introduzione della “fat tax” si è riscontrato un calo del 20% dell’acquisto di olio di margarina, ma in seguito non ci sono state ulteriori inflessioni significative. Il consumo di grassi era stato ridotto solo dal 7% dei Danesi, mentre cresceva l’impopolarità della tassa, tanto da scoraggiare l’ipotesi che era stata ventilata nel 2013 in merito a qualcosa di analogo per yogurt e ketchup.

L’esempio dell’Ungheria, dove la tassa sul “junk food” funziona

Il governo ungherese ha introdotto nel 2011 una tassa del 4% su prodotti confezionati e bibite, vale a dire sulle caramelle, brioches, condimenti, marmellate, ma anche snack salati e naturalmente soft drinks. Nel mirino insomma tutti quei prodotti alimentari che contengono elevati livelli di zuccheri o sale.

La tassa, che ha colpito il cosiddetto cibo sbazzatura (in inglese junk food appunto), ha permesso allo Stato di incassare nei primi quattro anni circa 219 milioni di dollari che sono stati poi investiti nella sanità. Un introito interessante, che rappresentava nel 2013 l’1,2% della spesa sanitaria complessiva.

Uno degli effetti della tassa riguarda anche una rivisitazione delle ricette da parte di alcuni produttori, che hanno apportato qualche modifica in chiave salutista. E se il 40% dei produttori ha cambiato le proprie ricette, il 59% dei consumatori ha ridotto il consumo di cibo spazzatura, anche grazie all’avvio di campagne di sensibilizzazione realizzate allo scopo di informare l’utente finale.

Secondo la World Health Organization, dal 7% al 16% dei consumatori ha deciso di passare a prodotti più economici e al contempo più sani, mentre tra il 5% e l’11% ha cambiato marca optando per un’alternativa più sana.

In base a quanto riportato nel dossier realizzato dalla WHO, in Ungheria si rilevava il più alto tasso di mortalità per malattie cardiache, ischemia e cancro del mondo industrializzato; una media procapite relativa al consumo di sale che era la più alta d’Europa; una percentuale d’incidenza dell’obesità allarmante, con due adulti su tre obesi o sovrappeso.

In Francia “sugar tax” in vigore dal 2013

In Francia una tassa sugli zuccheri ce l’hanno dal 2013, e nel 2018 è stata modificata con un innalzamento della soglia. Le bevande dolci con quantità di zucchero superiori agli 11 grammi per 100 ml vengono tassate di 20 euro ogni 100 litri, con l’obiettivo, come in Gran Bretagna, di contrastare l’obesità in un Paese dove il 50% degli adulti è sovrappeso. Sono stati anche vietati i “free refill”, moda importata dagli USA che permetteva di riempire il proprio bicchiere di bibita gassata senza limiti di quantità.

La “sugar tax” francese ha indotto i produttori a ridurre la quantità di zucchero nelle bevande. Schweppes e Lipton Ice Tea hanno tagliato gli zuccheri del 40%, mentre Seven Up e Fanta li hanno tagliati del 30%. Coca Cola ha preferito lasciare la bevanda così com’era, ma in compenso ha messo in commercio anche bottiglie di dimensione più piccola.

La Norvegia ha la sua “sugar tax” dal 1922

La Norvegia è stato il primo Paese europeo ad introdurre una “sugar tax”, ma nel 1922 il solo scopo era quello di aumentare le entrate nelle casse dello Stato, mentre l’intento di incidere sui consumi in chiave salutista è subentrato in un secondo momento.

Il governo norvegese nel 2018 ha quindi deciso di aumentare la tassa dell’83% per gli snack e del 42% per le bevande zuccherate, con l’obiettivo di diminuire il consumo di zucchero del 12,5% entro il 2021, e ridurre diabete e obesità, anche se i dati non sono particolarmente allarmanti, visto che risulta sovrappeso solo un bambino su sei.

I risultati però non sono quelli che il governo sperava, visto che la reazione dei Norvegesi è sempre più simile a quella dei Danesi, che attraversano il confine per andare a comprare in Svezia quello che in patria costa troppo. Anche gli effetti sull’occupazione sono gli stessi, con una perdita di posti di lavoro che non lascia ben sperare.

Da parte di consumatori e industria sono arrivate numerose critiche, che insieme agli effetti negativi sull’occupazione, stanno spingendo il governo a rivedere la politica ed eventualmente abolire la “sugar tax”, cosa che, secondo alcune proiezioni produrrebbe un mancato introito nelle casse dello stato di circa 150 milioni di euro.

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