Erdogan si prepara ad entrare a Kobane e chiede la cattura del comandante delle milizie curde

La Russia in questi giorni ha inviato nuove truppe in Siria, e mentre le forze di polizia militare agli ordini di Mosca prendono posizione nella fascia lunga 30 km del territorio siriano che confina con la Turchia, il presidente Racep Tayyip Erdogan sta mettendo a dura prova la già fragile tregua raggiunta grazie all’intermediazione degli Stati Uniti.

Le 150 ore di tregua durante le quali i miliziani curdi avrebbero dovuto abbandonare la safe zone definita da Ankara, deponendo le armi e distruggendo le postazioni militari fin’ora da loro occupate, stanno ormai per scadere, ma la situazione è tutt’altro che in via di risolversi.

Il cessate il fuoco fino ad ora non ha funzionato completamente. Secondo diverse fonti infatti, non solo l’esercito turco avrebbe ostacolato la ritirata dei Curdi, ma alcune milizie pro-Ankara hanno anche portato avanti alcuni attacchi nei quali alcuni civili hanno perso la vita.

E la situazione, dopo i recenti sviluppi, rischia persino di peggiorare. Infatti Erdogan, dopo aver rivelato l’intenzione di attaccare la città simbolo della resistenza curda all’Isis, Kobane, ha anche chiesto al presidente USA Donald Trump di consegnargli il comandante delle Syrian Democratic Forces (Sdf) Ferhat Abdi Sahin, meglio conosciuto come comandante Kobane.

Una richiesta non da poco, anche perché è stato proprio tramite il capitano Kobane che il presidente Trump ha potuto intavolare la trattativa che ha portato le due fazioni all’accordo sulle 150 ore di tregua nel Rojava.

In una intervista alla tv di Stato turca Trt, il leader dell’AkParti ha fatto sapere che la Turchia “prenderà una decisione in base agli sviluppi” in merito alla presa della città di Kobane. Secondo la stessa fonte gli USA starebbero spingendo perché ciò non avvenga, mentre la Russia spingerebbe nella direzione opposta.

Il governo di Ankara ha intanto stabilito che nella località strategica a ovest del fiume Eufrate, Manbij, dovrà essere stabilita una postazione di osservazione militare. E per quel che riguarda il capitano Kobane, considerato dai Turchi un “terrorista ricercato dall’Interpol”, il leader dell’AkParti si è rivolto direttamente al presidente USA chiedendo di consegnarlo.

Amnesty International accusa il governo turco

La posizione del presidente Erdogan si fa sempre più indifendibile agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, e a gettare altre ombre arriva l’accusa di Amnesty International che riferisce di “rifugiati costretti a tornare in Siria con la forza”.

Quello che è accaduto, secondo quanto riportato da Amnesty International, risale a prima che il governo turco desse il via all’operazione Fonte di Pace. Nei mesi che hanno preceduto l’offensiva militare nel nordest della Siria, quindi ben prima che venisse stabilita la cosiddetta Safe Zone in territorio siriano, la Turchia ha dato il via ad una operazione di rimpatri forzati di rifugiati siriani.

Amnesty, a sostegno delle accuse mosse contro il governo di Erdogan, ha riportato i colloqui di alcune vittime che hanno denunciato di essere state picchiate e minacciate dalla polizia turca, che le avrebbe così costrette a firmare delle dichiarazioni con le quali affermavano di voler tornare in Siria. La Ong sostiene che “in realtà le autorità turche li hanno costretti a tornare in una zona di guerra e hanno posto le loro vite in grave pericolo”.

Erdogan è stato piuttosto chiaro in merito al suo obiettivo, per raggiungere il quale si è anche detto disposto a riaprire le porte della rotta balcanica, permettendo a 3,6 milioni di sfollati accolti in Turchia di entrare in Europa. La minaccia è chiara, ma qual è l’obiettivo? E’ presto detto: una volta delimitata la Safe Zone nella fascia di territorio siriano che confina con la Turchia, Erdogan intende trasferire 3 milioni di sfollati in quell’area, trasferimento che però sarebbe però già iniziato, in un momento in cui la zona è interessata da violenti conflitti armati.

L’operazione richiederebbe due fasi: nella prima verrebbero trasferite nella safe zone 2 milioni di persone, nella seconda il milione restante. In questo caso però si tratterebbe di sostituzione etnica, perché le regioni nel nord est della Siria sono quelle a stragrande maggioranza curda, in altre parole, il Kurdistan, che si estende poi anche sul territorio di altri Stati tra loro confinanti, mentre i tre milioni di sfollati provengono soprattutto dalle aree a prevalenza araba.

Anna Shea, ricercatrice di Amnesty International sui diritti dei migranti e dei rifugiati ha spiegato che: “l’affermazione della Turchia secondo la quale i rifugiati siriani stanno scegliendo di tornare indietro in mezzo al conflitto è pericolosa e disonesta. La nostra ricerca mostra che queste persone sono state ingannate o obbligate a tornare in Siria“.

E a tal proposito Shea ha aggiunto che: “la Turchia merita apprezzamento per aver dato ospitalità a oltre 3,6 milioni di Siriani negli ultimi 8 anni, ma non può usare la sua generosità come una scusa per violare le norme nazionali e internazionali eseguendo rimpatri in una zona di conflitto“.

Purtroppo non è ancora possibile completare una stima esatta del numero delle persone che sono state rimpatriate a forza dalle autorità turche. In base però alle numerose interviste realizzate tra i mesi di luglio e ottobre 2019, è possibile presumere che il numero complessivo dei rimpatriati superi le diverse centinaia.

Secondo quanto riferito dalle stesse autorità turche, il numero di sfollati rimpatriati sarebbe di circa 315mila, che in base a quanto riferiscono, sarebbero tornati in Siria in modo del tutto volontario. A questo proposito Amnesty International ricorda al governo di Ankara che “rimpatriare rifugiati siriani è un’azione illegale che li espone a gravi rischi di subire vuolazioni dei diritti umani”.

“L’accordo tra Turchia e Russia dei giorni scorsi fa riferimento al ‘ritorno volontario e sicuro’ dei rifugiati in una cosiddetta zona sicura ancora da realizzare” spiegano da Amnesty “la cosa agghiacciante è che i rimpatri ci sono già stati in modo né sicuro né volontario. Ora altri milioni di rifugiati siriani sono a rischio“.

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