Ne ha parlato in più occasioni il professor Alberto Zangrillo, primario e responsabile del reparto malattie infettive del San Raffaele di Milano, creando scalpore con la dichiarazione che il coronavirus dal punto di vista clinico non esiste più, e tornando poi sull’argomento in questi giorni, ma a descrivere la stessa situazione tornano anche le parole del professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri.
Oltre un mese fa il professor Remuzzi era stato intervistato su La7, ed in quell’occasione aveva già annunciato che la malattia sta cambiando. Ha anche tenuto a precisare che non si può ancora affermare che sia mutato il virus, ma che sia cambiata la malattia è un dato di fatto.
In una intervista riportata da Il Corriere, Remuzzi ha ora risposto a diverse domande riguardanti l’andamento dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia di Coronavirus, e dalle sue affermazioni non si può che intravedere un quadro completamente diverso da quello finora descritto dalla maggior parte degli esperti cui il Governo fa affidamento nel decidere quali misure di contenimento adottare.
In questi giorni si sta registrando un lieve incremento del numero dei casi in Lombardia, in alcuni casi in realtà si è trattato piuttosto di un aumento del numero di tamponi effettuati, che comporta inevitabilmente un maggior numero di pazienti trovati positivi.
Ad ogni modo al professor Remuzzi è stato domandato se fosse il caso secondo lui di richiudere la Lombardia. “Ma per carità” ha risposto Remuzzi “piuttosto, l’Istituto Superiore della Sanità e il governo devono rendersi conto di quanto e come è cambiata la situazione da quel 20 febbraio ormai lontano. E devono comunicare di conseguenza. Altrimenti, si contribuisce, magari in modo involontario, a diffondere paura ingiustificata“.
In Lombardia d’altra parte troviamo la stragrande maggioranza dei casi registrati in tutta Italia, vale a dire percentuali di nuovi casi che oscillano tra il 70 e l’80% del totale nazionale. “Bisogna spiegare cosa sta succedendo alla gente, che giustamente si spaventa quando sente quei dati” inizia Remuzzi “qui all’Istituto Mario Negri stiamo per pubblicare uno studio, che contiene alcune informazioni utili per capire, almeno così mi auguro”.
Ma di cosa si tratta esattamente? Remuzzi parte da una premessa sul funzionamento dei tamponi. “Per la ricerca del virus si usa la tecnica della reazione a catena della polimerasi (Pcr), in grado di amplificare alcuni specifici frammenti di Dna in un campione biologico. Per il Covid19 funziona così. Il genoma del coronavirus presente sui tamponi, ovvero l’Rna, viene trascritto a Dna e amplificato mediante tecnica Pcr, che aumenta enormemente il materiale genetico di partenza. Più elevato è il contenuto sul tampone di Rna, quindi di virus, e meno dovrà essere amplificato”.
Quindi cosa sta succedendo esattamente coi nuovi tamponi? “Abbiamo condotto uno studio su 133 ricercatori del Mario Negri e 298 dipendenti della Brembo. In tutto, quaranta casi di tamponi positivi. Ma la positività di questi tamponi emergeva solo con cicli di amplificazione molto alti, tra 34 e 38 cicli, che corrispondono a 35.000-38.000 copie di Rna virale“.
Si tratta di informazioni che essendo di natura prettamente scientifica, potrebbero non essere comprensibili a tutti, ma è lo stesso professor Remuzzi a spiegare che in sostanza “sono casi di positività con una carica virale molto bassa, non contagiosa. Li chiamiamo contagi, ma sono persone positive al tampone. Commentare quei dati che vengono forniti ogni giorno è inutile, perché si tratta di positività che non hanno ricadute nella vita reale”.
Remuzzi: “nessuno dei ‘nostri’ 40 positivi risulterebbe contagioso”
Insomma il concetto in fin dei conti è molto semplice: “sotto le centomila copie di Rna non c’è sostanziale rischio di contagio” fa sapere il professor Remuzzi, che cita uno studio appena pubblicato da Nature e confermato anche da altri studi.
In pratica quindi “nessuno dei ‘nostri’ 40 positivi risulterebbe contagioso” ha aggiunto Remuzzi “questo significa che il numero dei nuovi casi può riguardare persone che hanno nel tampone così poco Rna da non riuscire neppure a infettare le cellule. A contatto con l’Rna dei veri positivi, quelli di marzo e inizio aprile, le cellule invece morivano in poche ore”.
E se è vero che non ci si può basare unicamente su uno studio, quello del Mario Negri in particolare, per trarre delle conclusioni, Remuzzi ricorda che “uno studio del Center for Disease Prevention della Corea, su 285 persone asintomatiche ha rintracciato 790 dei loro contatti diretti” e cos’è venuto fuori? Semplice, che di queste 790 persone che sono state a stretto contatto con persone positive al Covid-19, nemmeno una è risultata positiva.
“Quante nuove positività? Zero” afferma infatti Remuzzi, che poi aggiunge: “e le risparmio altri studi che vanno in questa direzione”. Quindi se prima si teneva in grande considerazione il dato relativo ai tamponi, ora le cose sono cambiate.
“Adesso ne sappiamo di più” osserva il professor Remuzzi “l’Iss e il governo devono qualificare le nuove positività o consentire ai laboratori di farlo, spiegando alla gente che una positività inferiore alle centomila copie non è contagiosa, quindi non ha senso stare a casa, isolare, così come non è più troppo utile fare dei tracciamenti che andavano bene all’inizio dell’epidemia”.
Quanto al sistema adottato a Vo’ Euganeo, il professore conferma che ha funzionato bene. “Penso che il professor Crisanti abbia fatto un grande lavoro, agendo subito e con decisione. Quel metodo, doppio tampone e tracciamento, va bene per un piccolo focolaio” ha spiegato Remuzzi “ma se il virus circola da mesi e poi esplode come accaduto in Lombardia, quel metodo rischia di diventare controproducente, a meno di avere a disposizione una organizzazione pazzesca tipo Wuhan”.
Il sistema che si sta usando ancora adesso, che è basato sui tamponi tuttavia non è sbagliato “ma sta andando avanti in modo burocratico con delle regole che non tengono conto di quello che sta emergendo dalla letteratura scientifica” spiega il professor, che poi evidenzia che sebbene normalmente occorre del tempo perché la comunità scientifica e i governi recepiscano i risultati degli studi “in questo caso specifico sarebbe meglio accelerare, altrimenti si crea panico ingiustificato”.
Come mai così tanti casi in Lombardia?
Nell’intervista rilasciata a Il Corriere, il professor Remuzzi parla anche della questione dell’enorme disparità tra il dato relativo al numero dei contagi di Covid-19 in Lombardia e nel resto del Paese. “C’è stata una enorme quantità di malati, il virus è girato moltissimo, e questi sono i residui di quella diffusione” spiega il professore.
Quindi i nuovi casi di coronavirus registrati nella giornata di ieri, 18 giugno, il cui totale su base nazionale è di 333, 216 dei quali sono in Lombardia, non è preoccupante? “No, se sono positivi allo stesso modo di quelli della nostra ricerca, ovvero con una positività ridicolmente inferiore a centomila. Perché non possono contagiare gli altri” risponde candidamente Remuzzi.
Alla luce di questo, è chiaro che diventa fondamentale riuscire a capire se i nuovi positivi sono o non sono come quelli della ricerca fatta dall’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, cioè incapaci di infettare altri soggetti.
E “c’è solo un modo per scoprirlo” annuncia Remuzzi “bisogna dire quanto Covid-19 c’è nelle nuove positività. È quello che sto chiedendo. Il virus è lo stesso, certo. Ma per ragioni che nessuno conosce, e forse per questo c’è molta difficoltà ad ammetterlo, in quei tamponi ce n’è poco, molto meno di prima. E di questo va tenuto conto” conclude il professore.
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