Covid, variante Delta: anche dopo il vaccino si può contrarre la malattia. Quali sono i sintomi? Ecco come riconoscerli

La variante Delta sta continuando a diffondersi in tutto il Paese, e ancor prima nel resto d’Europa a cominciare proprio dalla Gran Bretagna che, ricordiamo, è il Paese con la più alta percentuale di vaccinati di tutto il Vecchio Continente.

Questa variante, che fino a qualche settiana fa chiamavamo variante indiana, è in grado come abbiamo visto di ‘bucare’ la prima dose del vaccino. Nonostante questo i vaccinati possono dormire sonni relativamente tranquilli in quanto i vaccini oggi in distribuzione sono comunque in grado di offrire un qualche tipo di protezione dalla malattia grave, insomma “funzionicchiano”.

La variante Delta del Covid-19 quindi continua a raggiungere, come peraltro fanno anche le altre varianti con velocità di trasmissione variabile, anche i soggetti completamente vaccinati che a loro volta sono quindi in grado di contagiare altre persone esattamente come chi non ha ricevuto neppure una dose di vaccino.

In questi ultimi giorni comunque sono sempre più “numerosi i casi di persone che hanno contratto il Covid-19, nonostante il vaccino” come spiegano da SkyTg24. La variante Delta è ormai prevalente in diversi Paesi del mondo, tra cui anche gli Stati Uniti, per non parlare naturalmente del Regno Unito.

Il vaccino però dovrebbe essere in grado di ridurre comunque il rischio di ospedalizzazione e di decesso, anche se, stando ad un recente studio condotto in Israele da alcuni ricercatori circa l’efficacia del vaccino Pfizer-Biontech, la protezione offerta è minore nel caso della variante Delta. Ecco quindi che anche i soggetti completamente vaccinati si trovano a dover tener d’occhio i sintomi della malattia in caso di contagio.

Covid-19 variante Delta: quali sono i sintomi

Sia i soggetti completamente vaccinati che quelli che non hanno ricevuto nemmeno la prima dose del vaccino possono contrarre il virus nella variante Delta e sviluppare i sintomi della malattia, ma come fare per riconoscerli? Ci viene incontro uno studio realizzato nel Regno Unito, uno dei Paesi in cui la variante Delta è maggiormente diffusa, che ci aiuta a riconoscere i sintomi più comuni.

I dati sono quelli dell’app ZOE Covid Symptom Study, il cui scopo è raccogliere tutte le informazioni grazie alle segnalazioni degli stessi utenti. In pratica in Regno Unito chi risulta positivo al Covid-19 può segnalarlo tramite la app ed inserire eventuali sintomi che vengono poi raccolti ai fini di studio.

Tramite la stessa app in uso in Regno Unito è possibile anche segnalare se si è stati a stretto contatto con un positivo. Ad ogni modo come accaduto in Italia con la app Immuni, anche la app ZOE non ha riscosso molto successo, infatti attualmente vi risultano registrate circa 4,6 milioni di persone.

Un numero comunque sufficiente per svolgere degli studi approfonditi ad esempio sui sintomi del Covid. Grazie alle segnalazioni infatti gli esperti sono stati in grado di capire che tutti coloro che hanno contratto il virus nonostante avessero completato il ciclo di vaccinazione, “hanno riportato sintomi diversi da quelli comuni. In particolare: mal di testa, naso che cola, starnuti, gola infiammata, perdita del gusto” riporta Sky Tg24.

Nella ricerca britannica si legge che “sono stati segnalati meno sintomi e in un periodo di tempo più breve da coloro che avevno già avuto una dose di vaccino” il che indicherebbe che chi ha contratto il virus dopo la somministrazione completa del vaccino “si ammala meno gravemente e migliora più rapidamente”.

Tra i sintomi più frequenti troviamo lo starnuto, infatti i ricercatori hanno riferito: “abbiamo notato che le persone che erano state vaccinate e poi sono risultate positive al COVID-19 hanno più frequentemente segnalato gli starnuti come sintomo”. Insomma se capita di starnutire spesso potrebbe non essere solo un raffreddore ma il Covid, anche se la differenza si presenta quanto mai sfuggente.

Variante Delta: chi è vaccinato rischia comunque di ammalarsi?

Con la variante Delta a quanto pare anche chi è vaccinato rischia di ammalarsi seppur difficilmente svilupperà la forma grave della malattia e quindi i casi di ricoveri e decessi dovrebbero ridursi ulteriormente in ogni caso.

Ma esattamente che tipo di protezione sono in grado di offrire gli attuali vaccini in circolazione? Su Il Corriere della Sera nei giorni scorsi si è cercato di fare un po’ di chiarezza, fornendo un’idea quanto più possibile dettagliata di quale tipo di protezione offrano i vari vaccini e quanto cambia tra chi ha ricevuto la somministrazione completa e chi invece solo la prima dose.

Molte persone si chiedono quali siano i vaccini che proteggono meglio dalla variante Delta, e stando a quanto riportato da uno studio con dati relativi alla poplazione vaccinata negli Usa che è stato pubblicato sulla rivista The Lancet, basta una sola dose di Pfizer per offrire una protezione dell’80% circa contro il Covid.

Nel caso del vaccino di Moderna la percentuale sale all’83%, mentre per AstraZeneca si scende al 76% circa. Se però entra in gioco la variante Delta le percentuali tendono ad abbassarsi notevolmente.

In Regno Unito è stato riscontrato che la protezione offerta dalla prima dose di Pfizer scende al 36% nel caso di variante Delta, e con AstraZeneca si arriva al 30%. Percentuali decisamente basse che dimostrano come i vaccini anti Covid offrano una protezione estremamente variabile tra una variante e l’altra.

Fin qui abbiamo visto quello che succede in termini di percentuali di protezione con una sola somministrazione del siero. Ma cosa accade se si completa l’intero ciclo vaccinale? Contro la variante Delta il vaccino Pfizer diventa efficace al 79% circa, mentre quello di Moderna sembrerebbe raggiungere addirittura il 94%. Si arriva poi appena al 60% se si ricevono due dosi di AstraZeneca.

ANSA: “Vaccini ‘imperfetti’ rendono i virus più aggressivi”

Così titolava l’Ansa in un articolo del 2015 dove venivano riportati i risultati di uno studio pubblicato su Plos Biology. Sarebbero passati altri 4 anni abbondanti prima che il mondo iniziasse a conoscere il Covid-19, ma già allora erano noti i rischi connessi alla somministrazione di un vaccino ‘imperfetto’ vale a dire non in grado di impedire il contagio.

Sull’Ansa il 28 luglio 2015 leggevamo che “i virus possono diventare più aggressivi e pericolosi quando si usano vaccini ‘imperfetti’, ovvero vaccini che prevengono la malattia ma non la trasmissione del virus ad altri individui”.

Lo studio che ha portato a questa conclusione è stato condotto da alcuni ricercatori statunitensi della Penn State University e da ricercatori britannici del Pirbright Institute, i quali hanno studiato gli esiti della vaccinazione dei polli contro la malattia di Marek causata da un herpes virus.

Si tratta, come sottolineato dall’ANSA, di dati che sono stati pubblicati su Plos Biology, che hanno indotto i ricercatori a lancare l’allerta non solo per i vaccini che vengono utilizzati negli allevamenti intensivi, ma anche per i futuri vaccini umani contro l’Hiv, la malaria e l’Ebola.

Il coordinatore dello studio, Andrew Read, ha spiegato che “i vaccini che funzionano perfettamente, come quelli contro vaiolo, polio, orecchioni, rosolia e morbillo, sono capaci di prevenire la malattia e anche la trasmissione del virus“, ma non è il caso dei nostri attuali vaccini anti-Covid che, come sappiamo non solo non impediscono il contagio, ma nemmeno la malattia. Sono in grado solo di evitare (non sempre peraltro) che si sviluppino i sintomi più gravi che possono portare al ricovero e alla morte.

Nell’articolo pubblicato sull’Ansa nel 2015 viene spiegato che l’azione dei vaccini che funzionano perfettamente è in grado di mimare la forte risposta immunitaria che l’organismo sviluppa naturalmente quando entra in contatto con il virus.

“I vaccini imperfetti invece (come quelli contro il Covid-19 ndr) consentono al virus di sopravvivere, circolare ed evolvere verso forme più aggressive” spiega ancora il coordinatore dello studio Andrew Read.

Cosa questa che, come leggiamo sull’Ansa, è stata osservata ad esempio nel caso del vaccino contro la malattia di Marek nei polli, ma potrebbe ripetersi anche con il vaccino contro l’influenza aviaria in uso degli allevamenti del Sudest asiatico per evitare che gli animali debbano essere abbattuti.

Insomma “identificare per tempo i vaccini ‘imperfetti’ è fondamentale” dice l’Ansa “non solo per la sicurezza degli alleamenti, ma anche per la salute dell’uomo”. In chiusura poi leggiamo un passaggio delle considerazioni di Andrew Read che sembrano preannunciare quello che stiamo vivendo con i vaccini anti-Covid e il diffondersi di varianti sempre più aggressive.

“Stiamo iniziando a sviluppare una nuova generazione di vaccini che potrebbero essere imperfetti perché mirati contro virus che non indicono una forte immunità naturale, come nel caso dell’Hiv e della malaria” spiega il coordinatore della ricerca, che poi avverte sui rischi prendendo ad esempio il virus Ebola: “nessuno vorrebbe che un virus così letale potesse diventare ancora più aggressivo per colpa di vaccini imperfetti”.

Ora la domanda è: con il virus del Covid-19 invece siamo sicuri di volerlo rendere più aggressivo, come sta accadendo in queste settimane con la variante Delta, continuando a somministrare vaccini imperfetti?

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