G20 a Roma, molte assenze e piani non credibili: l’accordo sul clima sembra lontano

Durante il G20 che si terrà a Roma il 30 e il 31 ottobre, il premier Mario Draghi punterà al raggiungimento di un pre-accordo sul clima (anche con i grandi inquinatori del pianeta) che verrà poi presentato alla COP 26.

Tuttavia al momento uno dei maggiori rischi è che quello dei prossimi giorni si trasformi in un evento disastroso, che segnerà la battuta d’arresto finale per i negoziati della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che prenderà il via proprio il 31 ottobre (a Glasgow) e terminerà il 12 novembre.

Quella del 30 e 31 ottobre rappresenta quindi l’ultima occasione. E’ difficile immaginare un evento migliore del G20 per verificare le ambizioni e i progetti dei vari Paesi, considerando anche che i Paesi che ne prendono parte sono proprio quelli ritenuti responsabili del 75% delle emissioni globali di gas serra.

Sono diversi però i segnali che non fanno ben sperare. Il primo campanello d’allarme è dato dal fatto che il presidente cinese, Xi Jinping, si collegherà da remoto, mentre il ministro degli Eseri sarà presente di persona, e lo stesso vale anche per il presidente russo, Vladimir Putin.

Il motivo ufficiale della loro assenza è “causa Covid”. Si tratta comunque di un problema in più da affrontare, se consideriamo anche il fatto che Cina, Russia e Brasile hanno già affermato che non prenderanno parte alla COP 26. Inoltre molti altri Paesi, tra cui il Giappone, non hanno confermato la loro presenza all’evento.

Alok Sharma, ministro britannico e presidente della COP 26, ha affermato: “spero ancora che Xi Jinping venga a Glasgow”. Lo stesso ministro, inoltre, tempo fa aveva dichiarato che con molte probabilità questo evento “sarà più difficile di Parigi”.

Ma tornando al vertice di Roma, nelle scorse ore il premier Mario Draghi ha affermato che “la crisi climatica può essere affrontata solo se tutti i Paesi del G20 decidono di agire in maniera simultanea, coordinata e coraggiosa”.

L’impegno dell’Italia

Il premier italiano deve anche mantere una promessa fatta tempo fa, ossia quella di presentare un nuovo impegno di finanza pubblica. L’Italia resta infatti l’unico Paese del G7 (che comprende Francia, Germania, Regno Unito, Usa, Giappone, Canada e Italia appunto) a non aver ancora proposto dei nuovi impegni al 2025 rispetto all’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di euro, tra il 2020 e il 2025, per i Paesi in via di sviluppo.

L’organizzazione benefica Jubilee Debt Campaign ha condotto uno studio, citato da Guardian, dal quale è emerso che 34 dei Paesi più poveri al mondo spendono circa 29,4 miliardi di dollari all’anno per cercare di ripagare il loro debito e solo 5,4 miliardi di dollari per ridurre l’impatto sul clima e sull’ambiente. Senza contare che entro il 2025 saranno costretti a pagare 7 volte tanto.

Quindi ora ci si aspetta un grande impegno da parte di Paesi come l’Italia, assieme a tutto ciò che è stato promesso durante la Pre-Cop di Milano dallo stesso ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, il quale promise di raddoppiare il contributo attuale, passando da 460 milioni di euro l’anno a circa un miliardo.

Si tratterebbe sicuramente di un cambio di passo, sebbene una simili quota no sia ancora sufficitente dato che la quota equa media stabilita è di circa 4 miliardi di dollari all’anno, ossia circa 3,4 miliardi di euro. Un altro punto che potrebbe comportare un “cambio di passo” è la proposta fatta da Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture, per l’attuazione del pacchetto Fit for 55 europeo e per l’elaborazione di un piano tutto italiano per il raggiungimento degli obiettivi fissati al 2030 e al 2050.

Quali sono le assenze che pesano di più?

L’Italia, tuttavia, rappresenta solo un piccolissimo tassello dell’intero puzzle. Se si guardano i dati raccolti, infatti, ci si accorge che l’intera Europa è responsabile dell’8% delle emissioni globali di CO2. Sharma ha infatti sottolineato che tutti gli Stati del G7 si sono impegnati a non finanziare più l’apertura di nuove centrali di carbone all’estero, “come hanno fatto poi anche la Corea del Sud e la Cina”.

Tuttavia al G20 ministeriale di Napoli non è stato raggiunto alcun accordo sull’eliminazione graduale del carbonio a livello nazionale, motivo per cui la decisione è poi stata rimandata proprio al G20 dei leader. E’ dunque per questo motivo che risulta di estrema importanza la partecipazione all’evento di Roma di tutti i Paese che maggiormente inquinano al mondo.

L’ideale sarebbe raggiungere un accordo sulle zero emissioni nette entro il 2050 (anche se la Germania ha già deciso di puntare al 2045), garantendo delle significative riduzioni già entro il 2030 e di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5 gradi centigradi.

A tal proposito gli Stati Uniti hanno ribadito, già negli scorsi mesi, il loro intento di dimezzare le proprie emissioni entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005, mentre l’Europa punta ad una riduzione del 55%, sempre entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990.

La Cina ha invece intenzione di arrivare alle zero emissioni nette entro il 2060 ed ha annunciato un picco massimo entro il 2030, anche se continua a costruire nuove centrali a carbone sul proprio territorio e ad investire nel settore delle rinnovabili solamente un terzo delle risorse che dedica alle fossili.

Si tratta dunque di azioni che entrano in netto contrasto con le intenzioni appena elencate di ridurre la quantità di gas serra emessi ogni anno. Nel “Libro Bianco” presentato di recente vengono confermati tutti gli impegni presi e si assume, come “obiettivo vincolante”, il taglio del 18% dell’intensità del carbonio (che misura la quantità di emissioni di gas serra per unità di PIL) dal 2020 al 2025.

Il problema principale è che la Cina, da sola, emette il doppio di quello che emettono gli Stati Uniti, considerando anche che questi ultimi sono i principali emettitori storici. Subito dopo troviamo l’Europa e l’India. Anche la Russia, poi, ha fissato i propri obiettivi al 2060, ma non ha ancora chiarito come farà a raggiungerli.

Il presidente francese, Emmanuel Macron, che a gennaio assumerà per la durata di sei mesi la presidenza di turno dell’Ue, ha discusso con il presidente cinese, Xi Jinping, circa il dossier internazionale sul clima. Eppure, proprio in questi giorni il Climate Finance Day tenutosi in Francia è stato interrotto da un blitz da parte di attivisti, i quali denunciavano che “i finanziamenti delle principali banche francesi di combustibili fossili soo quasi raddoppiati dalla COP21 e dall’adozione dell’Accordo di Parigi”.

Il caso australiano e il piano Usa che vacilla

L’Australia, invece, che risulta essere uno dei principali Paesi esportatori di carbone, ha deciso di fissare al 2050 l’obiettivo delle zero emissioni nette, senza però introdurre alcun obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni. Inoltre non è nemmeno previsto alcun “cambio di rotta” sull’uso dei combustibili fossili.

Per questo non sorprende sapere che (secondo quanto emerso da un’inchiesta realizzata da Unearthed, il team investigativo di Greenpeace Uk) proprio Paesi come l’Australia, il Brasile, l’Argentina, il Giappone, l’Arabia Saudita e altri Stati membri dell’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) stiano facendo pressioni per annacquare il prossimo rapporto Ipcc.

Infatti un alto funzionario del governo australiano, rivedendo la bozza sul report, ha rifiutato categoricamente la conclusione che sia necessario chiudere gli impianti a carbone. Oltre a tutto questo, poi, si aggiungono anche altri segnali negativi provenienti dal polo opposto del pianeta.

Pare infatti che il Build back better act statunitense stia incontrando non pochi ostacoli al Congresso, dovuti anche all’incredibile aumento del prezzo del gas, il quale è quasi raddoppiato, motivo per cui sono state riaccese diverse centrali a carbone.

Biden si dice quindi pronto a rivedere l’intero piano, tagliando parte degli investimenti destinati alle energie pulite. Con questo non si rischia un’altra uscita degli Usa dagli Accordi di Parigi, ma di certo si tratta di un’azione che porterebbe ad una perdita di concretezza e credibilità da parte degli obiettivi statunitensi.

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