Recovery Fund e Mes, i fondi europei non sono mai gratis. Visco: “per questo devono essere spesi bene”

Terminati gli incontri previsti dalla scaletta degli Stati generali convocati dal premier Giuseppe Conte, il Sistema Italia dovrebbe essere presto pronto a ripartire, ma le misure da mettere in campo sono ancora in fase di valutazione e la sensazione è che la classe politica sia ‘distratta’ dalle prossime scadenze elettorali, e persino abbia un occhio rivolto all’elezione del presidente della Repubblica del 2022.

Il denaro dall’Europa arriverà, e quando ciò avverrà il Paese dovrà essere pronto a spenderlo nel migliore dei modi per far ripartire l’economia. Denaro che, come ricorda lo stesso governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, non sarà certo gratis.

Non fu gratis il Piano Marshall che attraverso il fondo-lire permise all’Italia di rimettersi in piedi dopo la seconda guerra mondiale, men che meno sarà gratis il Recovery Fund o il Meccanismo Europeo di Stabilità, ammesso che l’Italia decida di farne uso alla fine.

Visco lo aveva ricordato anche in apertura degli Stati generali, affermando che gli aiuti che arriveranno dall’Ue “non potranno mai essere gratuiti”, e dopo la fine degli incontri con il Sistema Italia, il governatore di Bankitalia è tornato sulla questione ribadendo che i fondi europei “andranno pagati”, aggiungendo: “resterà su di noi il pagamento e per questo devono essere spesi bene, in infrastrutture e progetti utili”. Insomma non bisogna “perderli in rivoli” ha ribadito Visco, l’Italia “deve avere la capacità di spenderli”.

La questione del ‘costo degli aiuti’ che dovrebbero arrivare dall’Europa viene affrontata su IlSole24Ore dove leggiamo che oggi “contribuisce una certa atmosfera politico-culturale, già affermatasi prima del coronavirus e poi rafforzatasi dopo la violenta crisi che ne è derivata. Quella del debito ‘a gratis’ e senza alcuna condizione“.

D’altra parte bisogna tenere i piedi per terra e non farsi strane illusioni, questo è chiaro, ma se persino il Piano Marshall finanziato dagli USA non era gratis, è vero anche che per una Germania in ginocchio nel Dopoguerra, gli altri Paesi europei accettarono di cancellare metà del debito.

Ad ogni modo il noto quotidiano finanziario si sofferma sul primo dei due esempi. Il problema del debito si pose anche nel secondo dopoguerra, quando all’Italia toccarono 1 miliardo e mezzo di dollari, buona parte dei quali a titolo di sovvenzioni e una minima parte invece come prestiti.

Grazie ai fondi che arrivarono dagli Stati Uniti con il piano Marshall, l’Italia riuscì a ripartire, ma non senza ostacoli. A dimostrarlo il Country Study, con il rapporto Hoffman del 1949 in cui non venivano riportati solo elogi, ma anche critiche alla gestione dei fondi da parte dell’Italia. Si accusava la classe dirigente di allora di “incapacità di formulare piani e direttive per assicurare la realizzazione della politica economica e nel ricostruire l’attrezzatura burocratica”.

Si metteva in evidenza “la necessità di un’attrezzatura amministrativa indipendente dai principali ministeri, la necessità di uno stato maggiore professionale e tecnico” con una preparazione adeguatamente alta, l’assenza di un organo governativo deputato ad indicare la rotta per lo sviluppo economico in un programma a lunga scadenza.

Il Piano Marshall in una intervista a Einaudi del 1948

Fu Luigi Einaudi, vicepresidente del Consiglio di allora, a parlare del Piano Marshall in un’intervista a Il Tempo, definendolo come “una medaglia a due facce”. Su un lato appare come un “dono” di prodotti per la ripresa, di cui peraltro l’Italia non può certo fare a meno, mentre sul secondo lato appare la faccia “dell’uso imposto al Tesoro italiano per il ricavato della vendita dei prodotti ricevuti perché gli USA ne chiedono il pagamento”.

Non fu esattamente un dono, quello degli aiuti previsti dal Piano Marshall, ne parla infatti Einaudi nella sua intervista. Della giustezza del principio si potrebbe disquisire a lungo, ma è un dato di fatto che all’epoca gli aiuti che arrivarono all’Italia erano vincolati a condizioni ben precise, così come lo saranno quelli che arriveranno nei prossimi mesi dall’Europa.

Come funzionava insomma il Piano Marshall? “È sempre un dono” tiene a precisare Einaudi nell’intervista rilasciata a Il Tempo nel ’48, ma “gli Stati Uniti pretendono che il Tesoro italiano, ricevendo 400 miliardi di lire di frumento, carbone, combustibili e materie prime, ne versi l’intero ammontare (…) in un ‘fondo-lire’ presso la Banca d’Italia. Che cioè il Tesoro paghi a se stesso cosicché l’Italia misuri interamente la portata di questo dono e possa attraverso il Parlamento e gli altri organi incaricati di deliberare in materia, decidere il migliore impiego del denaro accumulato”.

Quanto alle condizioni, Einaudi spiegò che gli Stati Uniti ne fissano “una sola: che gli Italiani facciano l’uso che reputeranno migliore di questa somma a proprio beneficio, purché non la usino per tappare i buchi del bilancio corrente dello Stato”.

Una condizione che secondo l’allora vicepresidente del Consiglio era da ritenersi ragionevole, visto che “se non ci fosse, gli Italiani dovrebbero metterla da se stessi. Se quella somma fosse impiegata a colmare il disavanzo ordinario del bilancio dello Stato, essa incoraggerebbe la perpetuazione di tale disavanzo, e nel 1952, quando il Piano Marshall avrà termine, l’Italia si troverebbe nella stessa situazione di ora col bilancio in disavanzo e senza aver nulla ricostruito”.

Le esigenze del Paese nel 1948 erano chiaramente ben diverse da quelle di oggi. A decidere come spendere il denaro proveniente dal Piano Marshall sarebbe stato il popolo italiano, come sottolinea Einaudi, e lo userà per “opere di ricostruzione, ripristino delle ferrovie, dei porti, continuazione delle bonifiche delle strade, potenziamento e rinnovamento degli impianti industriali”.

Al vicepremier viene domandato poi se egli preveda la nascita di qualche controversia intorno all’uso che si farà degli aiuti previsti dal Piano, ed Einaudi dice chiaramente che ciò potrà avvenire, ed “è perfettamente naturale” che accada “in un Paese libero dove i problemi di interesse pubblico sono e debbono essere oggetto di discussione, è naturale che si possano avere opinioni diverse su un argomento”.

Eppure nella sua intervista l’allora vice premier lascia intravedere una sostanziale differenza tra la natura delle questioni che avrebbero potuto animare il dibattito politico nel 1948 e quella delle questioni al centro del dibattito nel 2020.

“È probabile che l’amministrazione delle Ferrovie dello Stato, che il Ministero dei Lavori Pubblici, che il Ministero dell’Agricoltura cerchino di volgere a proprio beneficio, e cioè a beneficio delle ferrovie, delle strade, dei porti, delle bonifiche, la massima parte di questo dono”. Impossibile non notare che gli interessi in gioco 70 anni fa erano ben diversi da quelli di oggi, dove il privato sovrasta il pubblico.

“Ed è altrettanto naturale che l’industria affermi che una cospicua parte dei fondi debba invece essere rivolta al rinnovamento degli impianti industriali e specialmente di quelli distrutti dalla guerra o superati” dice ancora Einaudi “il problema potrà essere risolto, come tutti questi problemi debbono risolversi, con la formazione di una graduatoria tra i diversi fini mettendo in prima linea quelli che sono considerati i più importanti e urgenti”.

Quanto all’ultima parola “dopo la discussione, che dovrebbe essere larga e completa, nell’opinione pubblica deciderà l’unico organo competente in materia: il Parlamento italiano” afferma Luigi Einaudi nell’intervista rilasciata nel 1948.

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