controllo fiscale

I dati dell’Agenzia delle Entrate per il 2024 dipingono un quadro preoccupante per il mondo delle piccole e medie imprese italiane. Oltre quattro controlli fiscali su dieci si concentrano sulle PMI, rendendo questa categoria il bersaglio privilegiato dell’attività ispettiva dello Stato. Una strategia che solleva interrogativi sulla giustizia fiscale e sull’efficacia del sistema di contrasto all’evasione nel nostro Paese.

I numeri di una pressione sproporzionata

L’analisi condotta dal Centro studi di Unimpresa sui dati della Corte dei conti rivela cifre eloquenti. Dei quasi 190mila accertamenti ordinari eseguiti nel corso dell’anno passato, ben 81.027 hanno colpito le piccole e medie imprese, rappresentando il 43% del totale dell’attività ispettiva. Le piccole realtà imprenditoriali hanno dovuto affrontare oltre 73mila verifiche, mentre quelle di medie dimensioni sono state sottoposte a quasi 8mila controlli.

Il confronto con altre categorie di contribuenti rende ancora più evidente questo squilibrio. I grandi contribuenti hanno ricevuto appena 1.677 accertamenti, un dato che corrisponde allo 0,9% del totale, nonostante gestiscano volumi d’affari e patrimoni infinitamente superiori rispetto alle PMI.

Il paradosso della riscossione

Nonostante la sproporzione numerica dei controlli, le PMI hanno generato oltre 9 miliardi di euro di maggiore imposta accertata, pari al 63,9% del totale di 14,2 miliardi recuperati dal fisco. Questo dato evidenzia un paradosso del sistema: mentre si concentrano gli sforzi ispettivi sui soggetti più deboli, si trascurano potenzialmente aree dove potrebbero emergere evasioni di maggiore entità.

La crescita dell’8% degli accertamenti rispetto all’anno precedente conferma l’intensificazione della pressione fiscale su un tessuto imprenditoriale già provato dalle difficoltà economiche degli ultimi anni, anche se i numeri restano ancora inferiori ai livelli pre-pandemia quando superavano le 260mila unità.

Le ragioni di una scelta contestata

La predilezione dell’amministrazione finanziaria per le PMI trova spiegazione in ragioni essenzialmente pratiche. Queste imprese risultano più vulnerabili e meno attrezzate per affrontare contenziosi fiscali complessi, rendendo più agevole l’attività di accertamento rispetto ai grandi gruppi che dispongono di strutture legali e fiscali sofisticate.

Tuttavia, questa strategia viene sempre più contestata dagli addetti ai lavori. Marco Salustri, consigliere nazionale di Unimpresa, definisce questa tendenza “un accanimento selettivo e miope” che rischia di danneggiare il tessuto produttivo più vitale del Paese senza produrre vera giustizia fiscale.

Le conseguenze sul sistema economico

L’impatto di questa pressione fiscale differenziata va oltre i semplici numeri della riscossione. Il clima di ostilità generato dai controlli intensivi sulle PMI rischia di alimentare sfiducia verso le istituzioni e di scoraggiare gli investimenti in un settore che rappresenta la spina dorsale dell’economia italiana.

Le piccole e medie imprese, già costrette a competere in un mercato sempre più globalizzato con risorse limitate, si trovano così a dover destinare energie e capitali per gestire verifiche fiscali che spesso si rivelano sproporzionate rispetto alle loro dimensioni e capacità.

Verso una riforma necessaria

La richiesta che emerge dal mondo imprenditoriale è quella di una riforma equa del sistema di accertamento che preveda criteri più proporzionali e una maggiore attenzione ai grandi patrimoni. L’obiettivo dovrebbe essere quello di trasformare il fisco da strumento punitivo a supporto per lo sviluppo economico.

Strumenti premiali per chi si mette in regola e una distribuzione più equilibrata degli sforzi ispettivi potrebbero rappresentare la chiave per un sistema fiscale più giusto ed efficace, capace di contrastare davvero l’evasione senza penalizzare chi costituisce il motore dell’economia nazionale.

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