L’Italia verso l’aumento degli stipendi? A imporlo sarebbe l’Europa

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Ancora nessuna legge in Italia, non prima della fine del 2022 se non altro, per quel che riguarda il salario minimo. Non sono stati compiuti passi in avanti in tal senso, e ciò nonostante le pressioni che arrivano da più parte in ambito politico, a cominciare da quelle provenienti da Bruxelles.

L’introduzione di una legge sul salario minimo permetterebbe, secondo i pareri di nomi illustri a cominciare dalla sociologa Chiara Saraceno, passando per il direttore Lavoro dell’Ocse, Stefano Scarpetta, fino all’ex presidente dell’Inps, Tito Boeri, di compiere un importante passo verso la riduzione del cosiddetto lavoro povero, specie oggi fondamentale per contrastare gli effetti dell’inflazione e la riduzione del potere d’acquisto delle famiglie.

Non dimentichiamo inoltre che l’Italia, ad oggi, e almeno per tutto il 2022, resta uno dei 6 Paesi su 27 stati membri Ue, a non aver ancora adottato una legge sul salario minimo.

L’Italia verso l’aumento degli stipendi

Se per il momento possiamo sicuramente rinunciare all’introduzione di una legge sul salario minimo almeno fino alla fine dell’anno, un po’ a sorpresa scopriamo che potrebbe comunque essere introdotta una legge sulla rappresentanza.

Di fatto si tratterebbe di una direttiva che porterebbe ad un aumento degli stipendi in Italia, ma si tratterebbe non del risultato di una iniziativa dell’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi, bensì di una vera e propria imposizione da Bruxelles.

Il via libera a questa direttiva potrebbe arrivare nel giro di una manciata di giorni, con effetti importanti per i lavoratori italiani. Quindi nessun obbligo di varare una legge sul salario minimo, almeno per ora, in compenso il Paese finirebbe comunque per dotarsi nel giro di qualche settimana di uno strumento di valido contrasto contro il lavoro povero.

La nuova direttiva Ue di fatto obbliga il governo ad approvare una legge in grado di frenare i contratti pirata. Una volta che la nuova direttiva europea sarà stata approvata, cosa che a quanto pare dovrebbe avvenire entro il 6 giugno prossimo, il governo italiano dovrà infatti provvedere all’approvazione di una legge sulla rappresentanza, e in caso contrario incorrerà in una procedura d’infrazione da parte dell’Ue.

Cos’è e come funziona la legge sulla rappresentanza

Ma come funziona la legge sulla rappresentanza, e in che modo determinerà un aumento degli stipendi dei lavoratori italiani? Gli esperti spiegano prima di tutto che la legge sul salario minimo (comunque necessaria e urgente) e la legge sulla rappresentanza sono due cose ben separate e distinte, e mentre la prima permetterebbe di fissare delle soglie precise per quel che riguarda la retribuzione dei lavoratori dipendenti, la seconda comporta l’introduzione di norme mirate a valorizzare il ruolo di sindacati dei lavoratori e di associazioni datoriali, e in modo più indiretto ciò produrrebbe un aumento degli stipendi.

La legge sulla rappresentanza andrà ad interessare tutti quei lavoratori che sono stati assunti con dei cosiddetti contratti “pirata”, vale a dire contratti che prevedono una retribuzione nettamente al di sotto di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di categoria.

Questo fenomeno dei contratti “pirata” è reso possibile da alcuni vuoti sulla rappresentanza, che hanno lasciato spazio a sigle minori, o persino fittizie, di sottoscrivere accordi meno vantaggiosi per i lavoratori, che quindi vengono pagati meno rispetto a quello che dovrebbe essere il salario riconosciuto sulla base del ruolo svolto.

I lavoratori che si trovano in questa situazione oggi hanno armi spuntate contro il datore di lavoro. Possono infatti, ammesso che il gioco valga la candela, intentare una causa per richiedere un adeguamento dello stipendio, tenendo conto di quelle che sono le cifre indicate dal contratto di riferimento.

Ma ammesso che un eventuale esito positivo dell’azione legale dovesse concretizzarsi, non è detto che la posizione del lavoratore di fatto finisca per migliorare. Al di là di spiacevoli ripercussioni derivanti da una scelta del genere, le probabilità di un esito positivo sono francamente piuttosto basse per via di una legge, la numero 339 del 1989, che risulta avere maglie piuttosto larghe. La normativa prevede infatti che la retribuzione del lavoratore non può mai essere inferiore all’importo stabilito da:

  • leggi
  • regolamenti
  • cotnratti collettivi stipulati dalle “organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”.

Ed è proprio su quest’ultimo punto che si infrangono le speranze di ottenere una retribuzione equa. Infatti ad oggi non è possibile affermare con certezza quali siano le organizzazioni sindacali “più rappresentative”.

E bisogna anche prendere atto che quanto affermato dall’articolo 39 della Costituzione, che prevede la registrazione dei sindacati in cambio della possibilità di stipulare contratti collettivi validi per tutti gli appartenenti a quella determinata categoria, resta ad oggi completamente inattuato. Il risultato è che vi sono in vari settori contratti collettivi diversi, alcuni più sfavorevoli di altri.

Perché l’Italia sarebbe costretta ad aumentare gli stipendi

La situazione però potrebbe finalmente sbloccarsi, e questo grazie alla direttiva europea sulla rappresentanza, che obbliga di fatto i Paesi membri ad attuare almeno una delle seguenti misure:

  • legge sul salario minimo
  • maggiore copertura della contrattuazione collettiva, con una copertura di almeno il 70% della forza lavoro.

E visto che per quanto riguarda il salario minimo siamo ancora in alto mare, all’Italia non resta che ripiegare sulla seconda opzione. Lo stesso ministro del Lavoro Andrea Orlando pare aver confermato questa scelta da parte del governo, affermando che “una qualche legge, se non sul salario minimo, sul fronte della rappresentanza arriverà”.

Non possiamo tuttavia escludere che il governo dei migliori non riesca alla fine a seguire nemmeno questa strada alternativa, e che l’Italia si ritrovi invece a fronteggiare una procedura d’infrazione per mancato adempimento delle direttive europee.

Insomma anche quella verso la legge sulla rappresentanza sembra essere una strada ricca di ostacoli, come Claudio Lucifora, consigliere del Cnel, ha fatto notare in una intervista a Il Fatto Quotidiano, nel corso della quale ha spiegato che è impossibile oggi calcolare la percentuale di copertura dei singoli contratti collettivi nazionali, e che al tempo stesso non si può nemmeno verificare quali imprese applicano un contratto con stipendio minimo pari a quello indicato dai suddetti Ccnl.

I contratti vigenti oggi in Italia sono in tutto 985, e alcuni di essi prevedono importi inferiori rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali. Se invece si arriverà effettivamente a varare una legge sulla rappresentanza in forza della quale almeno il 70% dei lavoratori in un determinato settore dovrà essere inquadrato con contratto collettivo nazionale, il numero dei dipendenti tutelati registrerà rispetto ad oggi un netto incremento, con contestuale aumento degli stipendi di chi oggi risulta invece sottopagato.

Lo stesso Lucifora spiega infatti che se da una parte le imprese avranno ancora la possibilità di applicare contratti differenti da quello principale, dall’altra saranno comunque tenute ad attenersi all’accordo nazionale per quel che riguarda i minimi contributivi, e questo andrà ad incidere comunque sullo stipendio.

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