Dalla fine della crisi finanziaria, l’economia statunitense è riuscita a consolidare una prestazione particolarmente solida grazie principalmente agli stimoli fiscali e alle altre “iniezioni” aggressive su vari fonti: la combinazione tra una rapida ricapitalizzazione del settore bancario, i tagli dei tassi di interesse e il quantitative easing, ha permesso una forte riduzione dei costi dei finanziamenti e una buona disponibilità di credito.

Quanto sopra ha finito con il contribuire a sostenere i prezzi, mentre il crollo dei tassi di interesse ha contribuito a indebolire e rendere più competitivo il tasso di cambio del dollaro. Più di recente, gli Stati Uniti hanno beneficiato dei tagli fiscali del presidente Trump, che hanno contribuito a portare l’economia statunitense a nuovi massimi livelli. Ma durerà?

Qualche segnale di difficoltà

In realtà, un contesto di crescita globale più debole, come sottolineato dai recenti dati della zona euro, e le accresciute tensioni commerciali, hanno iniziato a pesare sull’attività statunitense, tanto che il presidente della Fed, Jerome Powell, ha ammesso che la crescita degli investimenti delle imprese sembra aver rallentato notevolmente.

Il presidente Trump, che ha criticato aspramente la Federal Reserve, spinge per un nuovo stimolo intenso per sostenere l’economia statunitense, ma con il settore dei consumi che continua a registrare risultati eccellenti, grazie alla bassa disoccupazione e alla combinazione di salari e prezzi in aumento, la Fed è stata riluttante a muoversi in tale direzione.

È il momento di prevenire o sarà il momento di curare?

La situazione sta tuttavia cambiando. Dopo aver alzato i tassi d’interesse a dicembre, i policy maker della Fed hanno cambiato gradualmente approccio, con Jerome Powell che ora afferma che le incertezze sulle tensioni commerciali e le preoccupazioni sulla forza dell’economia globale continuano a pesare sulle prospettive economiche degli Stati Uniti.

Insomma, per il momento c’è una tregua provvisoria con la ripresa dei negoziati commerciali tra Stati Uniti e Cina, ma è anche vero che le due parti rimangono molto distanti sulle questioni chiave, per cui non è certo possibile escludere la possibilità che i colloqui si interrompano di nuovo, in modo ancor più ingente. Un’altra ondata di aumenti tariffari porterebbe ad un rinnovato pessimismo e contribuirebbe ad una debolezza economica più pronunciata, interrompendo le catene di approvvigionamento, aumentando i costi e danneggiando i margini di profitto.

Evidentemente, un simile contesto finirebbe con l’essere molto negativo per i mercati azionari e renderebbe le imprese statunitensi più restie ad investire e ad assumere nuovi lavoratori. Segnali chiari di “rischio” imminente, che potrebbero essere fronteggiati dalla Fed con un’attività preventiva: il taglio dei tassi.

Quanto sarà corposo il taglio dei tassi?

Diversi analisti sostengono che la Fed muoverà in anticipo e in modo aggressivo per prevenire i rischi per la crescita degli Stati Uniti, con una riduzione dei tassi da 50 pb nel meeting del 31 luglio. Tuttavia, altri pensano che la riduzione sarà meno ingente, e pari a 25 pb, come peraltro auspicato da alcuni membri della Fed. Probabilmente, è proprio su questa seconda ipotesi che verrà sviluppato il taglio della Fed: d’altronde, dobbiamo ricordare come alla riunione del FOMC di giugno, la previsione mediana dei membri del comitato di politica monetaria fosse per nessun taglio dei tassi per quest’anno e solo uno per il prossimo.

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