La Cina lavora alla sua criptovaluta di Stato

Non si sa ancora se si chiamerà crypto-renminbi o se assumerà un’altra denominazione, ma anche se manca ancora l’ufficialità sembra proprio che la Cina sia pronta al grande passo, quello di dotarsi – primo paese al mondo – di una moneta digitale di stato, emessa direttamente dalla propria banca centrale.

Un salto di qualità importante, che molti altri paesi – Stati Uniti in testa – hanno finora esitato a compiere, ma che per molti sembra essere divenuto improrogabile anche alla luce dell’imminente ingresso di nuovi, potenzialmente dirompenti, attori sulla scena finanziaria mondiale. Il riferimento va ovviamente a Libra, la moneta virtuale di Facebook, a un passo dall’essere rilasciata sul mercato (la cosa dovrebbe avvenire nel 2020).

D’altro canto, dalle parti di Pechino sanno benissimo che il primo paese che immetterà sul mercato una criptovaluta sovrana potrà godere di un vantaggio non indifferente rispetto alle altre potenze economiche mondiali. I primi scambi finanziari avverrebbero in un regime di semi-egemonia, nel quale la sola concorrenza sarebbe costituita da criptovalute private, il cui appeal sulla scena economica non sarebbe mai paragonabile a quello di una moneta virtuale emessa dalla banca centrale di un colosso economico come la Cina. Al tempo stesso, proprio l’imminente introduzione della summenzionata Libra ha probabilmente indotto il governo cinese a preparare il terreno per accorciare i tempi. La moneta virtuale di Facebook, infatti, può già contare su un patrimonio di circa due miliardi di utenti e potenziali investitori: una dote inestimabile, che solo un Stato sovrano debitamente attrezzato può fronteggiare in maniera degna.

D’altronde, quello cinese si presenta come il mercato finanziario (e microfinanziario) teoricamente più ricettivo per un’operazione di questo tipo. Da un lato, infatti, abbiamo il paese più popoloso al mondo con il suo quasi miliardo e mezzo di abitanti. Dall’altro abbiamo una non meno considerevole capillarità di diffusione del mercato digitale: i cinesi sono infatti il popolo che utilizza maggiormente app e programmi per le transazioni monetarie, nonché quello che effettua il maggior numero di acquisti online. Non è un caso, d’altronde, se alcune delle maggiori compagnie internazionali per l’e-commerce siano sorte proprio in Cina, oppure abbiano trovato sul territorio cinese uno dei mercati più fertili e ricettivi.

Proprio a quest’ultimo punto si lega un ulteriore aspetto della questione: quello degli investimenti internazionali. Per quanto, ancora oggi, relativamente chiusa come economia, negli ultimi decenni la Cina si è progressivamente aperta ai soggetti investitori di altri paesi, e al momento rappresenta uno degli hub più fertili per molte compagnie non cinesi, come se fosse una sorta di porto verso il resto dell’Asia. Non a caso, sono proprio i colossi dell’industria dell’elettronica e dell’home entertainment (dai videogiochi ai film on demand) ad aver attecchito in Cina: si tratta, infatti, delle tipologie di prodotti più soggette ad acquisto online.

Ma al di là del profitto, lo scopo dell’operazione che Pechino si appresta a mettere in piedi è anche di natura conservativa. Per il Governo Cinese, infatti, si tratta soprattutto di porre un argine allo strapotere delle monete virtuali di scaturigine privata, e di proporre al tempo stesso una valida alternativa al dollaro come valuta di riferimento per gli imprenditori locali, sia sul mercato interno che su quello estero. Una sorta di autotutela che potrebbe fungere come modello di riferimento anche per gli altri stati che intenderanno avvalersi a loro volta, da qui a qualche anno, di una criptovaluta nazionale.

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